Addio, di Angelo Ferracuti

Il romanzo della fine del lavoro
Il romanzo della fine del lavoro
ADDIO

Il romanzo della fine del lavoro

di Angelo Ferracuti

Chiarelettere, Milano 2016

Collana Narrazioni

256 pagine

16,60 euro

“SMETTETE DI PARLARMI DEL MARE MENTRE SIAMO IN MONTAGNA.”
Pier Paolo Pasolini

descrizione (dal sito del’editore):
“MI SEMBRAVA L’UNICA COSA DA RACCONTARE, ANCHE UNA FORMA DI RIBELLIONE NEI CONFRONTI DEL PENSIERO DOMINANTE, CHE ARTATAMENTE RACCONTA SEMPRE

UN’ALTRA STORIA, ELUDENDO QUALSIASI CONFLITTO CHE STORICAMENTE È UNO

SOLO, QUELLO TRA CAPITALE E LAVORO.”

Angelo Ferracuti

 Un romanzo unico sulla nostra identità perduta, sul lavoro come valore fondante che rinnova una tradizione che sembrava ormai persa, quella di

una letteratura civile che racconta la vita, le lotte e il sangue versato dai lavoratori.

Angelo Ferracuti, non nuovo al genere del romanzo-verità in presa diretta sulla società in cambiamento, ambienta il nuovo libro in una zona della Sardegna che in passato dava lavoro a migliaia di persone e che adesso è praticamente abbandonata. Siamo nel Sulcis-Iglesiente, terra di miniere e dell’epica operaia, e ora provincia più povera d’Europa con i suoi 30.000 disoccupati su 130.000 abitanti e 40.000 pensionati spesso usciti dal mondo del lavoro dopo aver contratto malattie terribili come la silicosi.

Ecco la crisi di un mondo in disfacimento, legata a un modello di organizzazione del lavoro novecentesco e ormai ossidato come il ferro dei castelli degli ascensori abbandonati di Carbonia.

Ferracuti viaggia tra queste terre avvelenate e incontra una popolazione vinta, malata, povera ma piena di dignità, in una condizione che riassume tutte le contraddizioni del presente, come quella tra salute e lavoro, mentre le multinazionali dell’alluminio delocalizzano in Islanda e in Arabia Saudita. Qui è finito il Novecento ed è iniziato non si sa che cosa. Rimane la nostalgia e un buco nero a tratti rischiarato dall’assistenza dello Stato che tutti aspettano come unica salvezza.

Recensione:

“Addio” è molto più che un semplice reportage narrativo. Ferracuti ci accompagna nei vicoli della città addormentata e ripercorre la storia dolorosa delle miniere di carbone nel sulcis iglesiente sardo, lungo tutto un secolo, il Novecento, di battaglie per i diritti dei lavoratori, di morte per condizioni di sicurezza inesistenti, di operai dediti alla fatica e al sudore, ma trattati come numeri.
“coloro che io preferisco sono quelli che lavorano duro, secco, in obbedienza e, possibilmente, in silenzio”. La storia di questa gente è legata alla lotta contro la violenza e i soprusi, alla lotta per la dignità”

Le citazioni da Vittorini, i paralleli fra Carbonia, il più “giovane” comune d’Italia, battezzato in era fascista, e le miniere del nord della Francia di Zola, ci restituiscono la dimensione di una realtà isolana che non si arrende e, in un periodo di crisi che ci obbliga a essere “resilienti”, sembra non lasciare spazio all’umana desolazione.

“La poca gente rimasta qui ad abitare è come sopravvissuta a un improvviso cataclisma che in realtà non c’è stato”

“senza queste miniere non avremmo avuto alcuna identità, sono la nostra storia”.

Non ci si deve arrendere, non ci si può fermare. ma come ci siamo arrivati? Ferracuti con un’analisi delicata e approfondita cerca la risposta tra le parole dei suoi interlocutori:

“Anche nelle storie orali si divaga, e a volte questo perdersi non aggiunge particolari importanti, peggiora la forma, sembra una pausa che fa la memoria prima di ritrovare il solco giusto, il nastro giusto”

Io ho visitato Carbonia, la sua miniera, i pozzi e le gallerie e il ricordo di quell’angoscia del respiro mozzato è ancora vivido nella memoria. Posso testimoniare che Ferracuti sa scendere nelle profondità più nere per raccoglierne il senso più vero:
oltre la bellezza dei luoghi e la storia di una realtà lavoratrice ci sono loro, gli operai, numeri su turni a rotazione, lasciano una medaglia e prendono una lanterna prima di scendere in quell’inferno di sudore e polvere, pochi diritti, poca memoria.

continua a raccontare mentre i nostri camminamenti sembrano non finire più e gli scarponi affondano sulla terra, e nelle orecchie arriva solo il rumore dei nostri passi in questo pezzo di mondo buio senza sole.”

Se la prima parte della narrazione si focalizza sulla ricerca storica, la seconda affronta con profonda empatia i luoghi dell’abbandono di quella che sembra ormai una città fantasma. Lo accompagna Franco, il suo Virgilio, un ex sindacalista del sulcisente.
In miniera poi sono entrati i sindacati, le normative, la sicurezza. Diventa raro morire sottoterra negli anni ’80, ma si impiantano le fabbriche, cresce la media dei morti per tumore. la miniera non è più competitiva e si avvia alla chiusura, inesorabile scorrono gli ultimi grani della sua vita. Ma cosa ne sarà dei minatori? Generazioni che ne hanno fatto il proprio stile di vita, adesso si abbandonano i luoghi, si emigra in cerca di fortuna. La sostenibilità, la salvaguardia della salute: le priorità cambiano.

È terribile leggere delle macchine che si fermano, quando la stessa mano che le ha guidate per tanti anni deve arrestarle per sempre. Dalle pagine di Addio prende spessore l’angoscia degli operai e possiamo toccarla:

“Quando hanno chiuso la fabbrica – racconta Mocci commosso – sono andato in sala controllo e ho visto un uomo di cinquantacinque anni che piangeva come un bambino, non voleva schiacciare il bottone per bloccare una pompa.” Il tipo non voleva credere che stava spegnendo una macchina che aveva curato per trent’anni, e che dopo tutto lo stabilimento si sarebbe arrestato.  “Quando poi si è fermato davvero sembrava un gigante che stava morendo, una sensazione incredibile”.
E poi arriva una crisi nera, c’è Iglesias con il castello e il caffè liberty e le famiglie che arrancano a dispensa vuota distribuendo i volantini alle parrocchie per qualche buono benzina.
È una situazione drammatica, come in tutta Italia, ma forse qui anche di più.

“Addio”, suggerisce il titolo stesso, è il racconto di una fine, ma anche di un viaggio, oltre a essere il titolo di una canzone di Modugno sull’emigrazione:

“ci ripenso mentre sono di nuovo in treno, lo sferragliare delle rotaie e il movimento del convoglio producono una situazione ideale per lasciarsi andare alle immaginazioni più diverse. Il tempo morto del viaggio è la residenza ideale, cioè quella di vivere in movimento,  e anche quella che ti dà maggiore libertà: meno legami e responsabilità limitate.”

Vorrei concludere proprio con le parole dell’autore che introduce le atmosfere di questo romanzo:

“Libri come questo non hanno un inizio e una fine, prendono forma strada facendo, e quella forma cambia inevitabilmente molte volte”.

biografia:
Angelo Ferracuti è nato a Fermo nel 1960. Ha pubblicato romanzi e raccolte di racconti, ma soprattutto libri di reportage come “Le risorse umane” (Feltrinelli 2006), “Viaggi da Fermo” (Laterza 2009), “Il costo della vita” (Einaudi 2013) con un inserto fotografico di Mario Dondero, “Andare, camminare, lavorare” (Feltrinelli 2015).

Anita