Da duemila anni – di Mihail Sebastian

Da duemila anni

di Mihail Sebastian

Fazi Editore 

Dal sito dell’editore

Romania, anni Venti. L’antisemitismo è sempre più diffuso e violento. Il protagonista, uno studente ebreo dell’Università di Bucarest, insieme ai colleghi correligionari subisce quotidianamente angherie e soprusi, un martirio che gli altri sposano quasi fosse un processo di redenzione, mentre lui si sente intimamente antisionista eppure incapace di rinnegare la propria religione. Questo insanabile dissidio interiore lo induce al vizio. Il suo tempo trascorre infatti in lunghe passeggiate solitarie e notti alcoliche che spartisce con rivoluzionari, fanatici e libertini. Ed è attraverso il suo vissuto quotidiano e le conversazioni con i suoi compagni di strada – il determinato marxista S.T. Haim, il sionista Sami Winkler o il carismatico professor Ghita Blidaru – che il protagonista ricerca il senso di un mondo che sta cambiando e dell’oscurità che sta scendendo sul suo paese e minaccia di distruggerlo.
Uscito per la prima volta nel 1934, il romanzo è una tragica testimonianza dell’ascesa dell’antisemitismo in Europa. Un documento inestimabile e un racconto doloroso su uno dei periodi più feroci della storia europea che, in questi tempi oscuri di irragionevoli spinte nazionalistiche, ci insegna a dare un senso al passato offrendoci un ritratto dei molti volti dell’antisemitismo e provando a dare una risposta all’inevitabilità dell’odio.

 

Recensione

Il diario di Mihail Sebastian, Da duemila anni, scritto nel 1934 e incentrato sui rapporti tra la comunità ebraica e il mondo che la circonda, inizia nel 1922 e si protrae per una decina di anni. Non conosce ancora le nefandezze che sarebbero state perpetrate in tutta Europa negli anni immediatamente successivi, ma fornisce un quadro reale dell’atmosfera che regnava e che ha agevolato la diffusione delle tesi demagogiche dei regimi che le hanno perpetrate.

Il protagonista è conscio delle conseguenze letali che l’antisemitismo ha provocato nel corso dei secoli; spesso sottovalutato, minimizzato o ignorato, questo morbo è stato coltivato con una costanza che non trova riscontro nei confronti di altri popoli, etnie o comunità, facendo ricorso a manifestazioni di ogni genere per mistificare usanze, tradizioni e fatti o percorsi storici demonizzandoli attraverso motivazioni socio politiche o religiose spesso menzognere.

L’insicurezza che gli procura una società nella quale si è integrato, ma che lo tiene ai suoi margini, finisce per inibirgli gioie che altrimenti avrebbe assaporato senza remore, ma nei pochi anni di quiete si convince che l’antisemitismo sia stato estirpato e, ripensando al suo “quaderno blu del 1922”, afferma «Riducevo tutto al dramma di essere ebreo, il che comunque rimane una realtà, ma non così preponderante da annullare o anche solo soppiantare i drammi e le commedie strettamente personali. Suppongo che mi trovassi al limite del fanatismo. Smettere di scrivere il mio diario è stata, di certo, una buona scelta. Con la scrittura fomentavo la mia febbre. Dal giorno in cui mi sono liberato di quel quaderno, lasciando scorrere i giorni liberamente, senza commenti, senza scappatoie, le cose si sono man mano sistemate, tranquillizzate.

Si convince che «abbasso gli ebrei!» oggi è un grido quasi del tutto innocente, che fa persino simpatia” e non si fa un problema di avere qualche amico antisemita, non ne vede la pericolosità, nemmeno quando il carissimo amico Maurice Buret gli confessa «Vedi, io rimango sempre un antisemita. O, per dirla in maniera più esatta, resto un avversario di alcuni tic della sensibilità e della psicologia giudaica. Detesto quello spirito ebraico esagitato, convulso e febbrile; quella tipica ottica ebraica che altera le proporzioni delle cose, sconvolge la loro simmetria, attacca la loro realtà. 

Non se ne preoccupa pensando In fondo, l’“antisemitismo” di Maurice Buret non è altro che una riserva psicologica, ma l’amico insiste affermando: “noto che stai diventando patetico, che è poi sinonimo di ebreo. Peccato. Sto rischiando di perdere un amico».

Le sue convinzioni crollano definitivamente di fronte a espressioni di antisemitismo di un altro intimo amico,  Mircea Vieru,  «L’unica persona che pensavo incapace di essere antisemita» che gli confida che «Esiste ancora una questione ebraica che bisogna risolvere. Non è possibile sopportare un milione e ottocentomila ebrei. Se dipendesse da me, cercherei di eliminarne alcune centinaia di migliaia». 

«Cerca di capire, io non sono antisemita. Te l’ho già detto e lo ribadisco. Ma sono romeno. E, in questa veste, tutto ciò che mi si oppone rappresenta per me un pericolo. C’è uno spirito ebraico irritante da cui devo difendermi. Nella stampa, nella finanza, nell’esercito, dappertutto percepisco la sua oppressione. Se il nostro organismo statale fosse resistente, non mi importerebbe un granché. Ma non lo è. È peccaminoso, corruttibile e debole. Ed è per questo che devo lottare contro gli agenti della decomposizione». 

Il dialogo tra i due si protrae e si conclude con questa verità pronunciata dal protagonista «Tu non sei antisemita perché credi in un determinato pericolo ebraico; credi in questo pericolo ebraico perché sei antisemita».

Rendendosi conto di avere mentito affermando che in Romania vivevano 1.800.000 ebrei, l’amico “non antisemita” ribatte: «Ammettiamo che non arrivino al milione. E allora? Credi che un milione non siano sufficienti per rappresentare un pericolo?».

Scritto con uno stile letterario di pregio, “da duemila anni” si rivela capace di inebriare con passaggi continui dal melanconico al brioso, da osservazioni banali a considerazioni filosofiche degne degli scrittori storici cui si richiama, da Montaigne a Cartesio, Gide e altri. L’ammirazione che il protagonista prova per Maurice Buret, conosciuto nel 1931 durante il suo soggiorno lavorativo a Parigi, procura un senso di piacevolezza che fa dimenticare l’uomo oppresso di prima, colui che aveva dovuto subire angherie di ogni genere per la sua “diversità”.

Oggi, a distanza di decenni dal racconto di Mihail Sebastian, la comunità internazionale ha proclamato il 27 gennaio c “Giorno della memoria” come segno di esecrazione contro l’odio che da secoli circonda ovunque l’ebreo e che ha segnato il non lontano XX secolo con le atrocità che tutti oramai abbiamo imparato a conoscere.

In quel giorno è consuetudine assistere a proiezioni di film e documentari che ci raccontano le atrocità nazi-fasciste precedute, accompagnate o seguite da logorroici dibattiti di filosofi, religiosi, politici e l’immancabile promessa “Mai più”. Ci convinciamo che i molti volti dell’antisemitismo appartengono al passato e non ci accorgiamo di quanto imperioso sia il riaffacciarsi di quel passato, attraverso manifestazioni di stadio o di piazza o in dibattiti socio-politici in cui, a volte si percepisce persino l’auspicio di un ritorno a quel passato.

Alfredo