“La settima funzione del linguaggio” di Laurent Binet (La Nave di Teseo)

Con Roland Barthes e i suoi frammenti di un discorso amoroso ho già avuto a che fare durante gli anni universitari ma questa è tutta un’altra storia. O meglio, l’approfondimento della funzione del linguaggio secondo Jakobson, con una misteriosa settima funzione, appunto, sono il pretesto da cui prende spunto questo thriller originale. Quanti potenti si muoverebbero per carpire il segreto che consente di incantare chi ci ascolta? E quanti sarebbero disposti a tutto per sottrarre un documento che svela come esercitare questo potere?

Le conoscenze dell’autore emergono in ogni dove. Discetta con naturalezza di semiotica e linguistica. In effetti, chi si approccia a questo testo sarà facilitato se ha una buona conoscenza dei temi trattati, per non perdersi negli approfondimenti e nei dialoghi tecnici fra i semiologi.

Il romanzo parte da un banalissimo incidente per ampliare il suo raggio d’azione fino all’intrigo internazionale. Ma il vero protagonista indiscusso è proprio il linguaggio che rimbalza di personaggio in personaggio assumendo sfumature e colori diversi e originali. Non c’è arma più potente, d’altronde, della persuasione, del linguaggio che manipola e convince.

Barthes muore, dopo un pranzo con Mitterand, per essere stato investito da un furgoncino. La sua morte appare sospetta e ha il sapore dell’omicidio così viene inviato per indagare un commissario coadiuvato dal dottorando Simon.

L’indagine, che sfiora luoghi italiani e francesi, avvenimenti di rilievo storico e personaggi di grande caratura (da Eco a Foucault), è ricca di colpi di scena e riferimenti coltissimi.

Con uno stile che ho trovato arguto e graffiante e un ritmo serrato, Binet ci trasmette una colorita rappresentazione dello scenario accademico dei primi anni ’80 con continui riferimenti alla società dell’epoca e dissertazioni intellettuali profonde e approfondite sulla scena delle lettere del 900 a Parigi

Estratto:

Roland Barthes affretta il passo senza notare nulla di ciò che gli sta intorno, lui che pure è un osservatore nato, lui il cui mestiere consiste nell’osservare e nell’analizzare, lui che ha passato la vita intera a cogliere segni. Non vede letteralmente né gli alberi né i marciapiedi né le vetrine né le macchine di
Boulevard Saint-Germain, che conosce a memoria. Non è più in Giappone. Non sente il morso del freddo. Sente appena il brusio della strada. È un po’ come l’allegoria della caverna, ma al contrario: il mondo delle idee in cui si è chiuso oscura la sua percezione del mondo sensibile. Intorno a lui, vede soltanto
ombre.
Le ragioni che ho appena richiamato per spiegare l’atteggiamento sovrappensiero di Roland Barthes sono tutte attestate dalla Storia, ma voglio raccontarvi ciò che è davvero successo. Quel giorno, se Barthes ha la testa altrove, non è solo a causa della morte di sua madre né è dovuto alla sua incapacità di scrivere un romanzo o alla disaffezione crescente e, dice lui, irrimediabile, dei suoi studenti.