“Lamento di Portnoy” di Philip Roth (Einaudi)

lamento di portnoy
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Lamento di Portnoy di Philip Roth (Einaudi)

 

Oggi si è spento un grande autore.

Se ce ne fosse bisogno, ricordiamo che è stato fra i più grandi scrittori del Novecento e che ha raccontato con superba maestria la società ebreo-americana in romanzi fondamentali come Pastorale Americana (che gli valse il Pulitzer nel ’97) e Lamento di Portnoy.

Di quest’ultimo desidero raccontarvi.

Si tratta del lungo monologo di Alexander Portnoy, trentatreenne che prova ad analizzare la sua vita sotto il neon della psicanalisi. Il tormento che disturba la coscienza del protagonista è il suo percorso amoroso/sentimentale/sessuale che, naturalmente, parte dalla figura più conturbante fra tutte le donne che ha conosciuto: sua madre.

Mi era così profondamente radicata nella coscienza, che penso di aver creduto per tutto il primo anno scolastico che ognuna delle mie insegnanti fosse mia madre travestita. Come suonava la campanella dell’ultima ora, mi precipitavo fuori di corsa chiedendomi se ce l’avrei fatta ad arrivare a casa prima che riuscisse a trasformarsi di nuovo. Al mio arrivo lei era già regolarmente in cucina, intenta a prepararmi latte e biscotti.

L’ossessione per la figura materna, archetipo rappresentativo di tutte le colpe, è soffocante con tutto l’affetto che profonde anche nell’analisi delle feci del figlio adolescente mentre cucina i piatti della tradizione kosher, ma è anche la dea Madre, che lo ha generato e in un istante può disfarlo.  Si oppone per la potenza, l’ingombro e la tridimensionalità della figura al padre, stitico e quasi trasparente.

L’amore filiale, misto all’impossibilità di reagire, emergono già dalle prime righe, quando lo minaccia, ad esempio, come fanno le madri a ogni latitudine, con un coltello affilato:

Dottore, perché, ma perché oh perché perché perché una madre
sfodera un coltello contro il proprio figlio? Io ho sei, sette anni, come
faccio a saperlo che non se ne servirà sul serio?

La narrazione, il lamento anzi, è un viaggio iniziatico che sfiora le infinite sfumature del sesso: ambienti americani ed ebraici, onanismo, rapporti orali, autoerotismo e attraverso le sue sperimentazioni, Alexander fa i conti con la propria esistenza raccontandosi con una precisione linguistica che oscilla continuamente fra il dissacrante e il pirotecnico.

Alexander, che di Roth è l’alter ego, affronta alla fine degli anni 60 tematiche che ad oggi potrebbero sembrare soltanto pruderie da puritani, ma che, calati nel suo tempo, lo collocano in un panorama di rottura sulla scia di Henry Miller e dei suoi “tropici”. Il sesso in Portnoy è aspetto fondamentale come il respiro o la sete e questa coscienza invadente lo disturba e spaventa ma sente profondamente radicata in lui la necessità di sdoganarlo per essere libero.

Ogni romanzo è un’esperienza soggettiva, questo ha avuto su di me un impatto alienante. Sembra che il monologo esagitato trasporti in un’altra dimensione, forse per la sua precisione ipnotica già dall’incipit. La costruzione delle frasi, incisive e spudorate, trascinano il lettore in un mulinello nevrotico e psichedelico.

Mi rifiuto categoricamente di firmare un contratto che mi obblighi a dormire con un’unica donna per il resto della vita. Immagini: supponiamo che mi decida a sposare A, con le sue soavi tette eccetera, cosa succederà quando fa la sua comparsa B, le cui tette sono ancora più soavi, o comunque una novità? Oppure C, che muove il culo come non m’era mai capitato prima; o D, o E, o F. Mi sto sforzando di essere onesto con Lei, Dottore, perché con il sesso l’immaginazione umana vola fino a Z, e anche oltre!