“Il Morso” di Simona Lo Iacono (Neri Pozza)
Avevo già letto il precedente romanzo di Simona Lo Iacono, Le streghe di Lenzavacche e con grande timore mi sono avvicinata a questo suo nuovo lavoro. Le streghe mi hanno scavato l’anima e ancora albergano in un angolo, fra profumi di erbe selvatiche e ombre di spiriti. Quando mio padre, in una libreria, mi ha chiesto che cosa mi sarebbe piaciuto ricevere come regalo però non ho avuto dubbi: ho scelto “il Morso”.
Un libro corposo, 250 pagine e oltre, una casa editrice che stimo moltissimo per la scelta di qualità che porta avanti, Neri Pozza, e una copertina accattivante. La storia incuriosisce subito: Lucia Salvo è epilettica, ma a metà dell’ottocento significava essere definiti pazzi. Lei stessa ha difficoltà a rapportarsi con ciò che le accade all’improvviso e nei momenti più inadatti. Tutti chiamano le sue crisi “il fatto”, perché una follia tanto grande non si può nemmeno nominare. A servizio dai Ramacca, potente casata antiborbonica, dovrà destreggiarsi fra le pretese del conte figlio, eccentrico e insaziabile a cui morderà il viso per sfuggirgli, ignara che così facendo accenderà ancor di più le sue voglie, e le invidie della servitù, appoggiata da personaggi bizzarri e pittoreschi magistralmente caratterizzati come il nano Minnalò e il castrato signorino che canta così bene da far commuovere.
La penna di Simona Lo Iacono dipinge affreschi e le pagine prendono vita sotto lo sguardo del lettore. Una scrittura appassionata, potente e incisiva che scorre ricca ma svelta.
La narrazione procede alternando le vicende che coinvolgono Lucia e il conte figlio, rifiutato su più fronti e non soltanto dalla serva. Sullo sfondo, la Palermo dei moti popolari durante i quali Lucia si ritaglierà uno spazio importante, proprio grazie a quel “fatto” che non si può dire.
Perché, come tutte le cose, come l’amore e il suo cognome, ogni accadimento può essere insieme salvezza o perdizione…
Incipit.
“Il nome è Lucia Salvo.
Nessuna carta di nascita lo certifica, ma sua madre le ha detto così: «Ricordati questo nome, Luciuzza, e ricordati pure che sei una Salvo, una che porta o riceve salvezza».
Per il momento, però, salvezza ne ha ricevuta poca, pensa Lucia mentre il vetturino la sbalestra sulla carrozza che fa la spola da Siracusa a Palermo.
Ecco: l’afa si mangia il sudore, e il curato che le siede davanti fa ciondolare la testa senza accorgersi che un rivo di saliva gli cola agli angoli della bocca.
Lucia ha un guizzo di disgusto e pensa che Salvo è anche nome di babba.
«Ma quale babba» ha replicato sua madre questa mattina, mentre l’alba nasceva e allestiva un fagotto di stracci. «Ma quale babba» ha ripetuto con insofferenza tastandole i seni sotto il bustino per metterglieli su, dandole pizzichi di rosso sulle gote e un velo di belletto sulle labbra. «Piuttosto, sorridi e nascondi le mani, ché sono tutte tagliate. E se il Conte figlio ti tiene a servizio o ti prende nel letto, ringrazia tutti i santi del Paradiso».
Sarà… Ma questo fatto non sembrerebbe una salvezza a giudicare dagli strali che padre Cannavò Messazza lancia dal pulpito ogni Santa Quaresima, quando arringa che le cose di letto infamano nostro Signore e addolorano i santi.
«Decidetevi, mamà» ribatte a sua madre. «Decidetevi se è salvezza o perdizione, ché padre Cannavò non sembrerebbe d’accordo».
«E certo, padre Cannavò, che ne sa lui… Tu, invece, ascolta me: datti una passata di colore e spera solo che il Conte figlio non ne abbia già un’altra, di serva. Poi, se ti prende, mandami a chiamare, ché a Palermo, dai Ramacca, ci vengo pure io».”
Anita