Il romanzo di esordio di questa voce proompente è animato da una forte carica surreale che trasmette emozioni senza filtro e le trasferisce direttamente davanti agli occhi del lettore.
la protagonista non dice mai il suo nome ma ci racconta se stessa in un flusso di coscienza senza inibizioni, senza remore. siamo nella sua mente e proviamo le sue emozioni.
Con lei soffriamo per la perdita del padre, ritagliamo con lei una sagoma di cartone che lo possa sostituire anche se quel vuoto no si può riempire. Con lei ci innamoriamo di Volodja e ci chiediamo perché anche lui la voglia abbandonare: come si può lasciare una creatura tanto leggiadra e soffice? Ha la consistenza dello zucchero filato la protagonista, ha le parole sublimi del pensiero animato ed è molto bella seguirla nei suoi voli pindarici da un argomento a un altro della sua vita in equilibrio precario.
Il romanzo finisce presto, dura troppo poco, ne avrei letto altre cento pagine ancora del gatto Varenucha e della magia che l’autrice ricrea. Un mondo impalpabile dove la realtà si fa sottile fin quasi a scomparire e le cose sono quasi trasparenti.
Incipit.
OttantatréNon saprei dirvi come si fossero incontrati. Mio pa-
dre allora percorreva sentieri di sogni stinti e pattini arotelle – la vita gli era, diciamo, d’incomodo, e tutto inlui era un inventare convulso per annacquare la noiadi ogni giorno. Mia madre invece amava i piedi perterra, accarezzare il suolo con le immancabili pantofo-
le. La vita in qualche modo le piaceva, anche se forsenon nel modo solito.Avevano entrambi, cosí diversi, una certa passioneper le calzature; non l’ho ereditata, io, la sempre scal-
za, come non ho ereditato il resto.Non so dirvi neppure come mai si siano piaciuti.Mi sembra impossibile, sia perché le loro nature nonerano fatte per intendersi, sia perché sapevano esse-
re spiacevoli, e lo erano per molte ore del giorno edella notte. Ricordo bene le grida, di rabbia, di gioia,di sconforto – un rumore continuo, in tutte le chia-
vi, basso baritono tenore contralto mezzosoprano; epoi io, da qualche parte in una stanza, dietro un arma-
dio, dietro una scrivania: soprano. Tra le voci ce n’erasempre qualcuna che faceva presente, che il pranzo era
pronto, che eravamo in ritardo, che la camera andavarimessa a posto, che no, non potevamo avere un cane.Avrei potuto immaginarli come l’alfa e l’omega. Manon sono mai stati cosí importanti, sembravano piut-
tosto una pi e una gamma, due lettere che non si sa-
rebbero dovute conoscere neanche per caso. Poi, unascoperta imprevista – il numero ottantatré in grecosi scrive proprio pigamma, e accanto ha un diacriticosospeso, una specie di dubbio, di onestissima perples-
sità – chi sono, perché esisto, chi mi ha scritto perprimo, com’è accaduto che due lettere tanto diverse,tanto distanti tra loro giungessero a incontrarsi. Comea dire che ogni incontro, anche il piú sconclusiona-
to, è possibile e nella vita ha un ruolo, e che ero io,in fondo, ad avere torto: perché al numero ottantatrédavvero non avevo mai pensato.