Yeruldelgger, di Ian Manook

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YERULDELGGER

di Ian Manook

traduzione di Maurizio Ferrara

Dal sito della casa editrice:

Non comincia bene la giornata di un commissario mongolo se, alle prime luci dell’alba, in una fabbrica alla periferia della città, si ritrova davanti i cadaveri di tre cinesi, per di più con i macabri segni di un inequivocabile rito sessuale. E la situazione può solo complicarsi quando, poche ore dopo, nel bel mezzo della steppa, è costretto a esaminare una scena perfino più crudele: i resti di una bambina seppellita con il suo triciclo. Quello che però il duro, rude, cinico ma anche romantico commissario Yeruldelgger non sa è che per lui il peggio deve ancora arrivare.
A intralciare la sua strada, e a minacciare la sua stessa vita, politici e potenti locali, magnati stranieri in cerca di investimenti e divertimenti illeciti, poliziotti corrotti e delinquenti neonazisti, per contrastare i quali dovrà attingere alle più moderne tecniche investigative e, insieme, alla saggezza dei monaci guerrieri discendenti di Gengis Khan. Sullo sfondo, una Mongolia suggestiva e misteriosa: dalla sconfinata Ulan Bator alle steppe abitate dagli antichi popoli nomadi, un coacervo di contraddizioni in bilico fra un’antichissima cultura tradizionale e le nuove, irrefrenabili esigenze della modernità. Yeruldelgger dovrà compiere un viaggio fino alle radici di entrambe, se vorrà trovare una soluzione per i delitti, e anche per se stesso.
Un thriller classico, a tinte forti, con un’ambientazione unica, in cui pagina dopo pagina si susseguono le scene ad alta tensione e ogni calo di emotività è bandito.

scheda tecnica:

Autore:        Ian Manook 
Titolo:          Yeruldelgger
Collana:       Darkside 
Numero Collana:   5
Pagine:        524
Codice isbn: 9788876258800
Prezzo in libreria: € 16,50
Codice isbn Epub:  9788893250443
Prezzo E-Book: € 11.99
Data Pubblicazione:  30-06-2016

Recensione

Avevo letto l’anteprima del libro e c’erano due aspetti che facevano sì che io lo inserissi nella mia wish list: è un poliziesco ed è ambientato in Mongolia. Da qualche anno quel paese lontano, e altri paesi limitrofi, esercitano un certo fascino e suscitano la mia curiosità. La loro cultura antica come e più della nostra, la loro storia sconosciuta e i loro paesaggi sconfinati, così diversi da quelli a cui siamo abituati, mi affascinano, mi viene voglia di visitarli, ma sono talmente ‘altro’ che ho paura di non apprezzarli totalmente. E questo libro mi conferma i miei pensieri e i miei pregiudizi. La Mongolia è certamente un paese interessante, contraddittorio, a metà tra le tradizioni e il progresso. Per certi aspetti è un paese incontaminato, e per questo non so se lo visiterò mai, per una sorta di rispetto che la lettura ha aumentato.

Yeruldelgger guardò il vecchietto. Aveva le mani incise dalle corde e dal freddo, le guance levigate dal vento delle tempeste, gli occhi come fessure contro gli inverni. Rima- neva là, immobile, al suo fianco, in un deel ben stretto da una larga cinta, con gli stivali da cavaliere ben piantati in terra. E non c’era rabbia nelle sue parole. Quella rabbia sorda che Yeruldelgger sentiva crescere dentro di sé da- vanti a ogni delitto odioso con cui doveva confrontarsi, a ogni morte innocente, a ogni vita spezzata. Una rabbia vendicativa che ogni giorno faceva un po’ più fatica a con- trollare, con i pugni infilati in tasca, il collo incassato nelle spalle, il cuore sceso nello stomaco. Ma il vecchio, da par- te sua, rivelava una calma che era profonda come un lago e nello stesso tempo infinita come la pianura. All’improv- viso Yeruldelgger ebbe la strana sensazione che il vecchio non fosse più con loro. Era là semplicemente come la steppa, come le colline all’orizzonte, le rocce sparse e il vento che le erodeva da milioni di anni. Il vecchio non era più un uomo, era un macigno. Pieno. Denso. Solido. Tutti si erano fermati e rimanevano in attesa di qualcosa, ma lui non si muoveva. Il tempo sembrava sospeso.

Questa è una delle ragioni che mi hanno fatto apprezzare così tanto il libro: ho viaggiato in Mongolia, ho scoperto posti di cui non avevo mai sentito parlare (ma mi domando ancora se è vero, come mi dissero quando pensavo di visitarla, che ci sono le carpe più grosse del mondo), ho potuto conoscere alcune tradizioni, parlare con i nomadi, entrare nelle yurte e assaggiare il loro cibo, godere del panorama e delle distese a perdita d’occhio, e apprezzare la saggezza di chi rispetta la terra e la natura, di chi ascolta le anime, in una sorta di realismo magico alla mongola.

Un uomo in collera. Gli uomini in collera non fanno né uomini buoni né combattenti bravi. Guardati, sei in collera persino con il tuo corpo. Sei grosso e grasso e lento.

Eppure per certi aspetti “tutto il mondo è paese”:

«Come possiamo ignorare l’olocausto di sei milioni di ebrei?», si era infuriato a quel tempo.

«Perché non è la nostra storia», aveva risposto tristemente Solongo.

«Sei milioni di morti, come può non essere anche la nostra storia?».

«La nostra storia è più vicina agli ottanta milioni di morti di Stalin, e alle centinaia di milioni di morti di Mao e degli altri. La storia degli ebrei non è la nostra. E nemmeno tutta la loro guerra è la nostra».

«Però si tratta di sei milioni di persone assassinate!».

«Lo so», aveva risposto Solongo. «Capisco e non giustifico niente. Ti dico soltanto che, se non sappiamo nulla, è perché non era la nostra storia. In quel periodo, la nostra storia era il massacro dei nostri monaci, la distruzione dei nostri templi e il divieto di usare la nostra lingua. Quanti europei lo sanno, Yeruldelgger? E non bisogna avercela con loro, poiché tutto questo non è la loro storia».

Hitler era, come Gengis Khan per l’Occidente, un eroe esotico un po’ brutale, ma che aveva restituito la grandezza e l’orgoglio al suo popolo. Adolf il Lupo non vedeva in Hitler l’uomo del genocidio, proprio come gli occidentali non vedevano in Gengis Khan l’uomo del milione di morti dell’assedio di Bagdad. Il tiranno per il quale, lungo le centi- naia di chilometri tra il luogo in cui era morto durante l’as- sedio di Ning Hia e quello della sua sepoltura, tutti gli esseri viventi incontrati erano stati uccisi con il pretesto che sarebbero stati felici e fieri di servirlo nell’aldilà. Il tiranno che aveva fatto distruggere duemila moschee della Persia e dell’Iran, con le loro migliaia di libri e di pergamene ine- stimabili.

Yeruldelgger è chiamato a indagare sulla morte di una bambina, sepolta nella steppa, e su un triplice omicidio, che ben presto si scopre essere molto di più. Due tragedie apparentemente lontane e scollegate, ma che continuano e intrecciarsi. Dovrà scoprire la verità sugli omicidi, sulla sua famiglia, su se stesso, sulle sua collera e riappropriarsi del suo spirito, del suo essere mongolo e riscoprire le tradizioni dei nomadi e dei monaci.

Yeruldelgger provò una specie di felicità al pensiero di appartenere a quel paese dove i viaggiatori erano benedetti ai quattro venti e dove le bare erano chiamate con lo stesso nome delle culle.

Sarà un viaggio doloroso, per tutti, non solo per lui, e alla fine qualcuno non ci sarà più, qualcun altro avrà cambiato pelle come un serpente.

È un libro ricco, con personaggi che sembrano emergere dalle pagine, un mondo lontano, ma non per questo meno tangibile, la storia è complessa, gli intrecci sono continui e i colpi di scena sono ben misurati e mai esagerati, non sono costruiti per stupire il lettore, ma per far funzionare la storia, il che, ai miei occhi, li rende più apprezzabili.

Manook ci porta in un mondo che non è da favola, la violenza è presente in tutte le pagine, il più debole deve soccombere, le donne sono carne da macello, valgono meno di una capra, ma non per questo è un libro cupo o privo di speranza.

L’uomo che lei ammirava era una roccia, e lei aveva visto la pietra sgretolarsi, Yeruldelgger svuotarsi della sua sabbia per diventare un gesso scavato. Di fronte a lei, era in lacrime, e il suo silenzio era di una tale violenza che dieci anni dopo, quando di sera lei ci ripensava, continuava a rimbombare.

Se uomo come Yeruldelgger sa ancora piangere, allora c’è davvero speranza.

Daniela