“2084 la dittatura delle donne” di Gianni Clerici (Baldini + Castoldi)

Il romanzo di Gianni Clerici, “2084 la dittatura delle donne” edito Da Baldini + Castoldi, racconta l’ordine del nuovo mondo dopo un cataclisma o una guerra atomica che ha sovvertito le parti.

Egli immagina che le donne siano salite al potere. Tutto sommato però non si comportano in modo molto diverso da come facevano gli uomini nel vecchio mondo.

Si parla di una dittatura democratica, che è già ossimoro negli stessi termini, di una società felice e perfettamente ordinata in cui ciascuno ha il proprio posto, ogni donna nasce per compiere un determinato lavoro e l’istinto è bandito da ogni scelta morale e dalla procreazione.

C’è un computer che decide al posto dell’uomo, anzi della donna, e gli uomini sono schiavi poiché eccessivamente istintivi e inutili se non ai fini della procreazione selezionati in base alle loro potenzialità.

Vivono in tribù finché qualcosa non si rompe, un sentimento superiore che interviene a scombinare le carte e che si chiama banalmente amore.

Clerici presenta la storia di Evonne, la figlia di Livia, che rimane incinta di un uomo trattato come schiavo ma dalle grandissime capacità artistiche.

Lidia riconosce in lui l’anima del vero pittore capace di riprodurre opere d’arte dal valore inestimabile e fra loro tre si creerà un patto “indicibile” che potrebbe costare loro la stessa vita, soprattutto se il figlio di Evonne fosse un maschio.

Soltanto agli animali, infatti, è consentito procreare in maniera tradizionale. Le donne possono scegliere di unirsi ad altre donne con cui condividere la vita e possono procreare attraverso la donazione del seme.

Mi sembra, come anche in Ragazze Elettriche, sempre interessante vedere in che modo la sovversione del ruolo genera tutto sommato le stesse criticità della società contemporanea, ad esempio l’abuso di potere, la democrazia apparente e la difficoltà di amarsi liberamente.

La lingua è importante, aulica e contemporanea, i personaggi con la loro complessità ci costringono a guardare dentro noi stessi e il presente che stiamo vivendo, perché il futuro distopico che Gianni Clerici immagina non è poi molto diverso e ci spinge verso una riflessione sul valore dell’uomo e sulla ripercussione che le nostre azioni possono avere sul mondo contemporaneo.

Tutto ci dimostra che non esiste la felicità quando l’ordine è imposto dall’alto.

Estratto:

La mamma, Livia, stava nel grande sottotetto, vicino alla tavola da stiro e non lontana dalla tela del gattino, che dipingeva con i soliti colori acrilici.

La finestra era spalancata sul tratturo che dalla strada asfaltata conduceva a quella che era stata, secondo la povera nonna Sarah, la fattoria dei Castelli, la loro famiglia.

Una famiglia di ebrei forzosamente, o saggiamente, convertiti al Cattolicesimo, all’epoca in cui gli esseri umani ancora credevano alle religioni.

Dì lì, per solito, Livia vedeva per tempo l’arrivo da scuola di Evonne, l’unica figlia che aveva voluto, ai tempi in cui aveva deciso di non sposarsi con Gertrud, la donna che gli studi Psico-Socio-Attitudinali le avevano sottoposto nella qualità di persona complementare alle sue caratteristiche: caratteristiche, secondo il Ranking Esistenziale, non del tutto comuni.

Il suo identikit, infatti, definiva Livia «una possibile compagna con modeste inclinazioni alla vita di coppia e alla riproduzione, dedita a lavori individuali tra cui il giardinaggio e l’orto, gratificata da un talento professionale insolito per la pittura figurativa. Con particolari inclinazioni verso ritratti di animali, per lo più domestici. Ha seguito gli studi all’Università ottenendo regolare brevetto che la ammette a Mostre collettive delle Amazzoni e le consente di percepire dalla vendita dei suoi quadri somme necessarie al sostentamento».

Livia guardava quindi dalla finestra, attendendo, dalla scuola della vicina città, l’arrivo di Evonne, sua figlia, ammessa al Grado quinto dei Corsi di Élite, quando la sorpresa le fece cadere di mano il ferro da stiro col quale stava ripassando i pantaloni.

Infatti, di fianco a sua figlia, immersi in un dialogo disinvolto, Livia aveva scorto un’altra figura umana, incredibilmente quella di un Vir.

La prima cosa che le venne in mente fu che si trattasse di uno dei componenti della squadra che l’Autorità Campestre assegnava ogni anno al loro appezzamento di campagna, per la coltivazione sia del mais che delle vigne; lavori demandati alla categoria dei Vires, perché giudicati troppo pesanti e perditempo per le superiori attività delle Amazzoni.

Ma, avvicinatisi i due, Livia si rese conto di alcune caratteristiche che parevano escludere l’accompagnatore della figlia dalla categoria dei lavoratori del muscolo: gli mancavano infatti i capelli rasati, la tuta marrone e gialla, le scarpe dalla pesante suola che, in certe sottoclassi, dovevano durare quantomeno un anno.

Era elegante, in quel suo maglione a collo alto, che, si rese alfine conto, ne denunciava l’appartenenza agli Assimilati, e cioè alla casta più alta – o forse era più esatto – alla casta meno bassa dei Vires. Indispensabili al rapporto con le Donne, gli Assimilati erano una sorta di collante tra le due società, una casta alla quale poteva essere concessa qualche libertà di frequentazione, beninteso per ragioni costruttive e d’interesse generale, e soprattutto pubbliche.

Ciò detto, Livia prese a domandarsi cosa potesse aver spinto Evonne a permettere allo sconosciuto una tale confidenza, e, fuor dalla semplice curiosità, se l’insolito comportamento fosse stato notato dall’apposita Struttura di Controllo dei rapporti umani.

Nella quale prevalevano spesso sentimenti non proprio nobili, e interpretazioni simili a quelle che, nella storia antica, venivano attribuite a certe categorie che parevano inventate da scrittori di fantascienza: il cosiddetto Sant’Uffizio e altre, prodotti dalla barbarie di periodi in cui ancora esistevano le religioni maschiliste.