Atlante degli Abiti Smessi di Elvira Seminara

 

ELVIRA-SEMINARA

Trama (dal sito dell’editore):

Eleonora è una donna eccentrica con un modo tutto suo di guardare il mondo. Ma è anche una donna impetuosa. E ora che l’ex marito è scomparso, il rapporto con la figlia Corinne si è strappato, «come un lenzuolo che ha subito troppi lavaggi, vestito troppi letti». È anche per questo che Eleonora lascia Firenze e si rifugia a Parigi, in cerca di solitudine e di chiarezza, perché certe fughe «non si organizzano, si subiscono e al massimo cerchi di perfezionarle ». Da lí, osserva il parco sotto casa e le abitudini bizzarre degli inquilini del suo palazzo – un «ottimo esercizio di equa e diffusa compassione» – e tesse nuove trame. Ma soprattutto scrive a Corinne, per ricucire il loro rapporto. Un giorno dopo l’altro compila un campionario sfavillante degli abiti lasciati nella casa di Firenze. Una sorta di vademecum per orientarsi fra il silenzio ostinato degli armadi e il frastuono dell’umanità. Il catalogo animato di Eleonora diventa cosí un modo di trasmettere l’esperienza del tutto singolare, «fuori dalle ante». Un vortice di parole febbrili, inventive, con una forza espressiva inesausta, che ci trascina senza sosta, lasciandoci alla fine la sensazione di avere vissuto una storia che ci riguarda molto da vicino.

 

Recensione:

Questo libro scuote l’anima. Di chi è madre ancora di più. Parla di abiti in superficie, ma parla di amore e respiro, di lontananza e solitudine, della mancanza che è come affanno di asma.

Nella lettera di Eleonora alla figlia c’è tutto un mondo che teme di sprofondare nella notte: ci sono gli abiti che la madre tanto vorrebbe donare alla figlia che non li vuole, ci sono le esperienza a testimonianza di una vita intera dentro questo atlante e se non si raccontano presto sembrerà che non siano mai esistite. Ci sono grucce, persiane, nuvole e poesie. Tutto il linguaggio di Elvira Seminara è poesia, occhi che guardano alla realtà evocando immagini inusuali che “vestono” alla perfezione:

<<Con lei questa grande sala quadrata diventa piccola e tonda – una tazza – e io mi raccolgo sul bordo, alla fine, imbevuta e calda come una bustina di the.>>

Ogni parola richiama ad altri universi e dà nella sua armonia col mondo intorno, la perfetta adesione alla realtà di Eleonora. Che è sola in un condominio di persone sole. Le roteano attorno il prof del quinto, che profuma di camino spento, la vicina Bouger e l’affettuoso Chisei fra cieli bianchi e spugnosi, di alluminio e pioggia come merletti. Eleonora si rifugia nella sua cabina del marciapiede di fronte nella speranza di scorgere l’arrivo della sua adorata Corinne. A lei questa madre in decadenza rivolge ogni parola, ogni sguardo, ogni consiglio, pur non avendo la certezza che la sua lettera raggiungerà il destinatario. Perché una madre mantiene in un filo la promessa di trasmetterle tutto ciò che sa sugli abiti e sul mondo.

Le descrizioni di tessuti, vestiti e accessori sono descritti con cognizione e fantasia: incredibile pensare quanta anima si portino dietro di chi li ha indossati:

<<Vestiti del perdono, insieme morbidi e strutturati, in genere molli nella gonna e rigidi sul busto, spalle troppo imbottite a dire la superiorità>>

C’è un’atmosfera plumbea che sovrasta e soffoca la narrazione. Un dolore non detto, che affiora prepotente fra le parole, sordo e tagliente come una lama sottile nel ripercorrere la storia che è memoria ma soprattutto tentativo di riconciliarsi con l’altro, di perdonarsi per quella felicita “usata tutta, persino sprecata”:

<<Io ero dietro il vetro, tra le piante, eravate troppo occupati a dimenticarmi, per distinguermi>>

Ho letto in giro che è un libro “leggero”, cosa vuol dire leggero? Non sono d’accordo… è un libro profondo, doloroso, anche se tratta di frivolezze come cappellini e foulard, fra mostre e bistrot. Questo romanzo, dalle parole importanti e un ritmo mai piano, tira fuori dalle stoffe le paure e le solitudini di tutta una vita. In un’iperbole di sentimenti. E ci conduce dal quotidiano all’universale. Non è forse questo che facciamo tutti?

Anita