“Bianco è il colore del danno” di Francesca Mannocchi (Einaudi)

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“Bianco è il colore del danno”,
di Francesca Mannocchi,
Einaudi 2021

Ho letto “Bianco è il colore del danno” di Francesca Mannocchi (Einaudi 2021) con un groppo in gola.

“Bianco è il colore del danno” più che romanzo è il racconto di come la protagonista, che è anche l’autrice, a 36 anni ha scoperto di essere malata di sclerosi multipla. A quell’età ha un lavoro intenso di giornalista che spesso la porta all’estero ed è anche una neo-mamma. Ha con sé tutte le contraddizioni della genitorialità: da una parte la meraviglia di fronte al miracolo della nascita e dall’altra il bisogno di riprendersi i propri ritmi e il proprio spazio.

E invece, la malattia. Una nuova ascia che cade sul quotidiano. Il tempo smette di appartenerle, un nemico è in agguato nel suo stesso corpo: un corpo Caino, come lo chiama lei.

Nulla può tornare come prima. Così come c’è una linea di confine ben netta fra l’essere una non-madre e una madre, ce n’è anche una fra l’essere una non-malata e una malata. Non si può tornare indietro.

Quello che Francesca Mannocchi ci propone è la catarsi della sua paura, della sua rabbia, del suo istinto di rifiuto. Finché non intravediamo un luce in fondo al suo percorso di accettazione.

Punti di forza di “Bianco è il colore del danno”

Di suo, il libro è fatto bene. La scrittura è seria, potente, analitica. Spezzacuore, senza scampo. L’autrice, che in questo caso è anche la voce narrante, non si nasconde né si piange addosso, non si lamenta gratuitamente bensì pone domande: cerca un senso a quello che le ha accaduto, interpreta, offre letture ciniche, si dà spiegazioni.

“Gli dèi ci puniranno, perché vogliamo tutto?”

La verità è che spiegazioni non ce ne sono, e questa è la prima cosa che lei come protagonista e noi come lettori dobbiamo accettare.

Però, però, però…

Di suo, dicevo, il libro è fatto bene. È di mio che l’ho preso male 🙂 È un libro che mi ha fatta arrabbiare: contro chi me lo ha consigliato, contro la storia, contro l’ingiustizia. Mi ha fatto sentire una specie di corda intorno al collo, perché io non ho fatto nulla per meritare di essere sana, ma neanche la protagonista per avere una malattia degenerativa.

Le controindicazioni di questo libro non sono nella storia e nemmeno nella sua autrice. Non sono nella scrittura e nemmeno nelle sue eventuli imperfezioni. Le controindicazioni stanno nella crudezza e nel cinismo della realtà.

Giunti alla fine del libro abbiamo la tentazione di scagliarlo lontano, seppellirlo, darlo via, eppure subito dopo ci torna una rabbia contenuta male perché il nostro gesto non può cancellare la storia. Quello che “Bianco è il colore del danno” emana fuori dalle pagine è un abbacinante senso del pericolo. Risveglia quell’egoismo feroce di cui racconta Javier Marías ne “Gli innamoramenti”, che ci coglie mentre leggiamo la cronaca nera per accertarci che non siamo sul giornale nemmeno oggi, non è toccato a noi, l’abbiamo scampata anche stavolta.

Consigliato a chi ama i libri che fanno male, le storie che solo per un caso non sono la nostra.

Cristina Mosca