Febbre – di Jonathan Bazzi (Fandango)

“Febbre” di Jonathan Bazzi,
Fandango 2019

Autofiction o autobiografia? Il romanzo “Febbre” (Fandango 2019) è l’opera prima di Jonathan Bazzi, classe 1985, che nell’ultimo anno ha fatto parlare molto di sé specie quando è rientrato nella sestina dei finalisti del Premio Strega 2020. Si presenta come un’autobiografia senza veli, ma siccome non tutti i personaggi e non tutte le vicende sono reali è da considerarsi un’autofiction.

Il risultato non cambia. È la storia di come l’autore abbia scoperto la propria sieropositività e di come questo lo abbia o meno condizionato.

Attraverso un percorso introspettivo raccontato in prima persona e usando il tempo presente, siamo accompagnati attraverso ossessioni, paure, speranze, gratitudine e verità.

La narrazione si svolge su due binari paralleli: a capitoli alterni si è nel 2016 e nel passato. Entrambe le storie, sia quella principale sia quella che narra la sua infanzia e le persone che lo hanno cresciuto, vengono seguite con apprensione, sollievo, poi di nuovo apprensione, poi comprensione, di nuovo sollievo e via così. “Febbre” è un romanzo che si legge con la pancia.

Punti di forza.

Il romanzo è intenso e vero. Il protagonista è allo stesso tempo severo e generoso sia nei propri confronti sia nei confronti degli altri. Nei suoi ricordi e nel suo percorso ci sono il paese di origine Rozzano, i genitori, i nonni, i modelli maschili e femminili, gli amori occasionali, il compagno di vita. In qualche caso si ha l’impressione che ci si voglia togliere un sasso dalla scarpa, per i più si resta in racconti equilibrati e oggettivi, teneri a tratti. Storie e situazioni sono analizzate con sensibilità e spietatezza insieme, in un equilibrio che viene mantenuto con armonia.

Però, però, però…

Si parla di omosessualità, di incontri liberi, di corpi, attrazioni, meccanismi psicologici: argomenti molto intimi, quindi. È difficile proporli con distacco, è difficile scegliere il non detto. Nella seconda metà del romanzo l’introspezione inizia a diventare un po’ più esplicita nei riferimenti sessuali e questo potrebbe disturbare qualche lettore.

Presentazione di “Febbre” a Castelbasso il 31 luglio 2020, del FLA – Festival di Libri e Altrecose e della Fondazione Menegaz. Foto gentilmente concessa da Alessandra Angelucci . Da sinistra Vincenzo D’Aquino, direttore del FLA, e Jonathan Bazzi.

Però attenzione: il discorso non degenera e non l’ho trovato volgare. Non mi sono sentita mai insultata. Stilisticamente il romanzo si regge da solo, l’ho trovato elegante e rispettoso. Nei pochi passaggi in cui ho trovato la mano calcata mi è sembrato di tornare bruscamente alla realtà, tutto qui. Poi ho riflettuto e ho pensato che questa scelta scuote anche chi preferisce chiudere gli occhi. Altri hanno trovato snervante la scrittura, sincopata, ma a me in realtà non ha irritato affatto, anzi.

“Ho l’HIV: significa solo che frequento dottori e faccio controlli. Come milioni di altre persone nel mondo fanno per i motivi più disparati. Il resto ce lo metti tu, ce lo mettiamo noi.”

In conclusione.

Alla fine della lettura mi sono trovata a chiedermi se “Febbre” è un romanzo che vorrei tenere nella mia libreria, lasciando che mio figlio possa, un giorno, imbattercisi e leggerlo nella sua nudità. Perché “Febbre” è un romanzo che si offre senza veli, sì, ma che in una luce che non ferisce gli occhi. Ci ho riflettuto altri giorni; mi sono confrontata con il gruppo di lettura di Pescara “Sulla traccia di Angela” che lo ha scelto come libro di luglio; ho osservato Jonathan Bazzi e il suo modo garbato di stare al mondo, da ragazzo timido. Ho pensato alla fatica che può fare una persona così a rivelarsi, a chiedere alle persone di cambiare sguardo sulla realtà e sugli altri.

“La felicità è un affronto, richiede bilanciamento”

Ho pensato che anche mio figlio, un domani, potrebbe avere qualcosa di difficile da raccontare e che l’esempio di Bazzi potrebbe aiutarlo a prendere coraggio e a scoprire che la verità, per dirla con le parole di Ernest Hemingway, è un “bel posto per cui vale la pena di lottare”.

E quindi, l’ho lasciato nella mia libreria.

Cristina Mosca