“Fichi di marzo” è il romanzo di esordio di Kristine Maria Rapino, nata a Chieti nel 1982. Pubblicato da Sperling Kupfer a settembre 2022 – proprio nei giorni in cui la narrazione inizia – è ambientato in Abruzzo, tra la Majella e il mare.
Cos’è “Fichi di marzo”
“Fichi di marzo” è un romanzo di formazione, che racconta di una famiglia sull’orlo del tracollo finanziario e umano. Fa leva su una delle attività più antiche in regione, la produzione della pasta, e si muove fra merletti a tombolo, sorbi e trattori. È ambientato nel paese pedemontano immaginario di Roccasinara e si sposta a Chieti e Pescara in un respiro armonico.
I protagonisti di “Fichi di marzo” sono i pastai Guerrieri e il suo tempo è scandito da una gravidanza.
“Se lo ricordava, Gemma, quando le domeniche della sua infanzia avevano la riga in mezzo”
Quanti segreti è in grado di sopportare una famiglia? Quanto distacco, quanta cooperazione? Gemma ha bisogno di sua figlia Eva per salvare l’azienda, ma questo scatena le ire della terzogenita Diamante. Il secondogenito, Arturo, ha la sindrome di Asperger e vive solo per i suoi studi sugli asini, refrattario al contatto con il mondo.
Inoltre, ci sono alcune cose che Gemma ancora non sa.
Qualcuno deve prendere in mano la situazione. Ma chi?
Punti di forza
La scrittura di Kristine Maria Rapino è rivelatrice. Non so ancora dire come sia stato possibile descrivere in poche parole un certo “sibilo raschioso involontario” che si fa con la bocca mentre si è soprappensiero, o certi gesti semplici e insieme complessi che vengono compiuti nella quotidianità. Questa caratteristica stilistica mantiene il suo fascino per tutto il romanzo.
“Eva aveva compreso che occorreva diventare anfibia per poter vivere sia dentro sia fuori, sia la sua vita sia quella della figlia di Giordano Guerrieri”
L’incipit del romanzo, inoltre, mi ha fatto pensare all’inizio de “Il Gattopardo”. C’è la campagna, c’è il sole, c’è un principio di decadenza. C’è il sapore dolciastro dell’autunno che porta le cose a compimento.
Un altro pregio è l’intreccio. La ripartizione delle scene è efficace, aggancia il lettore soprattutto nei momenti più alti di pathos.
I dodici personaggi di “Fichi di marzo” sono raccontati a tutto tondo, in modo che il lettore riceva il ritratto di un Abruzzo in profondità grazie allo scorrere del tempo. Un tempo che sembra essere passato, invece è fermo nei gesti atavici delle generazioni più anziane e nell’arredamento delle case. Ed è rassicurante.
Però, però, però…
Nella seconda parte la situazione si complica, si alza l’asticella delle difficoltà per i personaggi e il lettore desidera “mangiare” il romanzo per vedere come ne usciranno. Di contro, proprio qui il libro invece rallenta, indugia sui vissuti, sulle decisioni. Il lettore impaziente potrebbe spazientirsi.
Ma poi realizza che, in fondo, è giusto dare ai protagonisti il loro momento di riflessione proprio quando tutto si complica.
“Si domandò se suo fratello ne avesse sofferto anche più degli altri, nel suo dolore ultravioletto”
Trovo “Fichi di marzo” un esordio molto positivo, che riflette in maniera promettente la vocazione teatrale dell’autrice. La si vede nelle pennellate sicure con cui vengono resi alcuni personaggi apparentemente al margine, come Arturo o il nonno, nella tempestività delle entrate in scena e nella gestione dei fulmini a ciel sereno.
È un libro che consiglio, soprattutto per chi si chiedesse ancora perché gli abruzzesi sono tanto gelosi della loro regione.
Cristina Mosca