Guasti di Giorgia Tribuiani (Voland)

Guasti Giorgia Tribuiani
Guasti Giorgia Tribuiani

Di leggere Guasti ho sentito il bisogno. Prima ancora di conoscere la trama sono stata incantata dall’armonia delle parole. Lo faccio sempre, di leggere l’anteprima. Perché se una storia nasce da una buona idea non significa che sia anche scritta bene. Quando ho scorso con gli occhi le prime righe ho sentito che questo libro mi stava chiamando.

Mi attraggono molto le storie oscure, gotiche, bizzarre, mi incuriosisce capire se l’autore sarà in grado di trasmettere l’atrocità dell’arte. E ancora di più mi intriga spiare la vita di chi è di fianco agli artisti, fuori di testa e originali, fino addirittura all’astrazione della morte, come nel caso della plastinazione. Che non sapevo neppure cosa fosse e che non ho avuto il coraggio di andare a guardare quando l’ho scoperto!

La storia è un conto alla rovescia dei trenta giorni in cui il corpo plastinato di un famoso fotografo viene esposto dall’artista, un anatomopatologo di fama mondiale. Giada è combattuta, non si sente pronta a lasciare andare il suo compagno incontro al destino che si è scelto, ma il tempo stringe e ben presto lei non potrà più vederlo, dovrà separarsene per sempre. Non è pronta per questo, per accettare che non ci sarà un luogo in cui potrà recarsi per preservarne la memoria.

Il tempo sta scadendo, lei si sente impazzire, non riesce a scegliere se seguirlo in tournée per il mondo o se costringersi a elaborare il lutto e andare avanti quando una nuova lama affilata pende su di lei. Quel corpo che non è più suo e nemmeno del morto ma che ormai appartiene all’arte, è stato acquistato, come un qualunque dipinto o una statua. Un essere umano che resterà esposto in casa d’altri, magari a un passo da lei e non lo potrà più vedere.

Ha bisogno di qualcuno che la faccia ragionare, Giada, per fortuna incontra il vigilante del piano di sotto che le porta la colazione al mattino…
Giada è una donna che si risveglia. Quando il suo compagno muore, scopre di non poter in alcun modo impedire che si compia la sua volontà. Come una moderna madonna in adorazione della sua croce, sta ai piedi dell’installazione e si interroga, si lacera, si sfregia l’anima con la sola domanda possibile: e ora, che ne sarà di me? Ma la domanda più profonda, il dono più grande che possa farsi è in realtà chiedersi semmai “cosa ne è stato finora di me?”

La mente è straordinaria, escogita trucchi incredibili per non farci impazzire e Giada si rende conto che l’amore nella sua forma più alta è amare gli altri attraverso l’amore per se stessi. Per quanto la razionalità ci spinga a ritenere un corpo soltanto un insieme di ossa, muscoli e pelle, non è scontato trovare il coraggio per lasciarlo andare, il corpo, martoriato e votato all’arte, esposto, indifeso, offeso nella sua nudità.

Sotto lo strato superficiale siamo tutti fatti uguali, non sta lì la differenza, sta semmai nel rispetto che riusciamo a mantenere di noi stessi la vera forma di arte. Questo ci insegna Giada, mentre lo impara sprofondando nell’atroce abisso della consapevolezza.

Estratto:

“Intorpidita, strisciando i polpastrelli sul corrimano lungo la scala, Giada salutò il secondo giorno di esposizione con gli ansiolitici nel retro degli occhi e nella borsa, tra il portafogli e le TicTac. Lui la attendeva alla fine della rampa, sulla sinistra, senza pelle. Lo raggiunse e leccò le labbra secche. Lui senza pelle, lui lì nudo come dopo l’amore, quanto tempo, passava impudico davanti alle finestre per frugare nella credenza e Non farti vedere, gli diceva lei allacciando il reggiseno prima di infilarlo dall’alto, non farti vedere, tu sei mio, nessuno ti tocca, e adesso – ironia della morte – di toccarlo poteva scordarlo anche lei, di accarezzare la testa calva, scotennata, di togliergli la macchina fotografica dalle mani e abbassargli le braccia lungo i fianchi: adesso riposa mio amore, riposa.

Mio povero amore. Hai firmato per gioco, quel tuo gusto per il nuovo, la tua arte, credevi fosse tua e invece eri suo, lo vedi?, ti ha fatto schiavo e chissà se tornerai libero com’eri, chissà se arriverà l’Abramo Lincoln dei morti a dirti muovi i tuoi muscoli, fletti il dito, fotografa ancora. Ricordi? Immobile come adesso, fingevi concentrazione e ti giravi alla sprovvista: clic!, e mi intrappolavi in un’immagine col trucco sfatto, clic! clic!, e io ero lì che mi grattavo, o avevo macchie di gelato intorno alle labbra – secche, oggi sono così secche – o di caffè sulla punta del naso.”