I vagabondi – di Olga Tokarczuk (Bompiani)

“I vagabondi” di Olga Tokarczuk, Premio Nobel 2018, Bompiani

I vagabondi” di Olga Tokarczuk è un libro più imponente delle sue 374 pagine. Scritto nel 2015 e pubblicato in Italia da Bompiani nel 2019 nella traduzione di Barbara Delfino, è figlio di un’autrice insignita del Premio Nobel della Letteratura 2018. Questo è uno dei motivi per affrontarlo con curiosità e apertura mentale, come ha fatto uno dei gruppi di lettura che frequento, “Sulla traccia di Angela”. Senza la sua iniziativa non l’avrei preso in considerazione, perché inspiegabilmente il mio interesse per i narratori dell’Est salta mezzo pianeta e si ferma direttamente in Giappone.

I vagabondi” è un libro ingannevole e bonario. La prima piccola trappola è nella sua definizione: viene detto romanzo ma si presenta più come un genere ibrido fra la diaristica e la fiction. Alterna quelle che appaiono come appunti di viaggio scritti in prima persona a vere e proprie micro-storie raccontate in terza, immagino attinte nei vari viaggi e per questo, probabilmente, romanzate. Un uomo cerca per tutta l’isola sua moglie e suo figlio, scomparsi nel nulla; la sorella di Chopin fa carte false per trasportare il cuore di suo fratello, morto, da Parigi a Varsavia; il dottor Blau si specializza nella plastinazione. E così via.

Punti di forza.

La lettura di questo lavoro diventa più scorrevole da quando il lettore ne accetta la mancanza di unitarietà, ossia che non si ha davvero a che fare con un romanzo con un inizio e una fine. Se si pensa ai racconti di “Gente di Dublino”, che appaiono come monadi vaganti in un piccolo universo, si riesce ad accogliere “I vagabondi” senza pretese sbagliate. È un saltare di palo in frasca e riprendere racconti interrotti proprio come durante un lungo vagabondaggio, in cui si parla del più e del meno senza associazioni mentali evidenti. Lo stile è scorrevole e oserei dire leggero, quasi ironico. Lo sguardo dell’autrice è molto particolare, assottigliato da una forte consuetudine in materia di viaggi.

“Dice che le popolazioni stanziali, agricole, preferiscono i piaceri del tempo circolare, nel quale ogni avvenimento deve tornare al proprio inizio, rannicchiarsi in embrione e ripetere il processo di maturazione e morte. Invece i nomadi e commercianti, quando si mettevano in cammino, dovevano inventarsi un altro tempo più adatto al viaggio. Si tratta di un tempo lineare, più pratico, una misura per raggiungere l’obiettivo e aumentare la percentuale. Ogni momento è diverso e non si ripete (…) e ogni attimo è vissuto al massimo. Ma alla fine si fa un’amara scoperta: il cambiamento operato dal tempo è irreversibile, e la perdita e il lutto diventano un affare quotidiano.”

Tra gli spunti di riflessione che vengono proposti il più interessante è quello sulla plastinazione, che è una tecnica di preservazione della materia viva. È un argomento che ricorre più volte, sia perché viene dato molto spazio alla storia del dottor Blau sia perché torna di sponda, tramite un personaggio o un’allusione o la storia di un’amputazione (eh già). A conti fatti sembra essere il vero trait d’union del romanzo, formando una dicotomia interessante con il titolo. In lingua originale il titolo è “Bieguni”, “coloro che corrono” e ho trovato curioso che una tecnica di immobilizzazione sia posta quasi a contrappeso a questo movimento attraverso lo spazio e il tempo.

Però però però…

I vagabondi” è uno di quei libri più simili a una conversazione che a una fiction. Prima di entrarci bisogna accettare questo patto narrativo. Una volta abbracciata questa condizione, si è pronti a muoversi fra curiosità, stralci di racconti, personaggi, scorci di luoghi e non-luoghi. Questo è l’unico “però” che ci ho trovato, perché è un prodotto talmente a sé stante che ritengo pretenzioso giudicarlo secondo i canoni convenzionali.

Cristina Mosca