Il Conte di Montecristo – di Alexandre Dumas

“Il conte di Montecristo”
Alexandre Dumas, 1846
Mondolibri 2016 (licenza Newton & Compton)

Viene indicato tra i “1001 libri da leggere prima di morire” e ora lo posso confermare: “Il Conte di Montecristo” è un classico della letteratura che vale la pena affrontare. Lo si riassume spesso come simbolo della vendetta ma forse lasciamo troppo spesso che a questa parola si sovrapponga, nel nostro immaginario, la maschera del personaggio di Alan Moore.

Eppure, l’opera portata avanti da Edmond Dantés è molto più sottile e monumentale di un attacco anarchico.

Uscito in volume nel 1846 ma in diciotto episodi sul “Journal des Debats” durante l’anno e mezzo precedente (tanto da moltiplicare in maniera esponenziale i suoi abbonati, pare), “Il Conte” si basa su una storia vera. Ricalca la vicenda di un giovane ciabattino narrata nelle “Memorie storiche negli archivi della polizia di Parigi” di Jacques Peuchet e accaduta nel l814: anche qui un uomo viene tradito da degli amici alla vigilia del suo matrimonio e rinchiuso in prigione per diversi anni. Diventa ricco grazie a un compagno di cella e al suo ritorno perseguita i suoi traditori e si vendica.

Il percorso di Edmond Dantès è simile al ciabattino, con un piccolo innalzamento molto ottocentesco, molto da “Promessi sposi” (che tra l’altro viene pubblicato proprio in quegli anni): l’intervento della Provvidenza per mano degli uomini.

Il c astello d’If, nel golfo di Marsiglia, dove Edmond Dantés è stato prigioniero per lunghissimi anni

La trama de Il Conte di Montecristo, in due parole.

Francia, 1815. Edmond Dantés sta per diventare capitano della nave che ha gloriosamente ricondotto in porto e sta per diventare marito di Mercedes. Alcuni rivali in amore e in affari tramano per calunniarlo e farlo imprigionare, ma la sorte vuole che la calunnia pesti i piedi anche al procuratore Villefort, che quindi ha tutti gli interessi per chiuderlo nella fortezza d’If nel golfo di Marsiglia e possibilmente dimenticarlo. Edmond passa i giorni e gli anni nella speranza che l’equivoco si chiarisca e oscilla fra la disperazione e la razionalizzazione; conosce l’abate Faria, che tutti credono pazzo perché racconta di un tesoro perduto sull’isola di Montecristo, nell’arcipelago toscano. Naturalmente l’abate non è pazzo e, dopo aver insegnato a Edmond tutto quello che sa su lingue, chimica e scienza, muore lasciandolo erede di una fortuna immensa, nascosta sull’isola di Montecristo. Edmond riesce a fuggire con un escamotage e qui inizia la sua lunga strada verso la vendetta: adesso ha solo l’obiettivo di riabbracciare le persone che ha amato e punire quelle che gli hanno fatto del male.

Il romanzo si conclude dopo una ventina di anni, quando il protagonista ne ha circa quaranta, ossia la stessa età dello scrittore.

I punti di forza

A chi mi dovesse chiedere come si possa amare un mattonazzo del genere, potrei rispondere tante cose. Alexandre Dumas è un maestro nell’intreccio e nei colpi di scena: non a caso veniva da una lunga esperienza di drammi e tragedie di successo, spesso scritti in collaborazione. Ci troviamo a galoppare nella trama con gioia, anche godendo dei giusti punti di ristoro. Il Conte agisce implacabile per gran parte del romanzo nel suo piano di vendetta; questo lo rende antipatico? Affatto. Proviamo empatia per lui e per il suo pallore; ammiriamo il suo distacco, il suo snobismo e la sua pazienza. Quando ci accorgiamo che il Conte di Montecristo è in grado di innescare un meccanismo cervellotico di cause ed effetti per fare in modo che tutti coloro che hanno generato il suo male vengano puniti, restiamo a bocca aperta come davanti al ragionamento deduttivo che Sherlock Holmes spiattellerà al mondo quarant’anni dopo. Non gli basta cercare i suoi nemici e sparargli: vuole che le loro meschinità si ritorcano contro di loro e riesce a fare in modo che siano le cause delle proprie disgrazie. Una lezione diabolicamente importante da imparare.

L’isola di Montecristo, nell’arcipelago toscano

La lunghezza de “Il conte di Montecristo” può impressionare. Era tanto che non mi fidanzavo con un libro così lungo: 876 pagine nella mia edizione Mondolibri del 2016 (licenza Newton & Compton), più la prefazione di Riccardo Reim che ha rivisitato la traduzione di S. Di Martinis. Intorno a pagina 600 ho iniziato a divagare con la mente e a desiderare di passare ad altro: ma nella mia ostinata monogamia gli sono rimasta fedele e sono stata ricompensata.

E nonostante, come commentò Robert Louis Stevenson, Edmond Dantès sia “poco più di un nome” e l’abate Faria “un personaggio di cartapesta”, iniziamo presto ad amarli. Riusciamo anche a provare tenerezza quando Dantés inizia a sentire il peso del suo piano, anzi forse lo amiamo di più proprio mentre si accorge che esso sta prendendo vita autonomamente e sta arrivando dove lui non aveva previsto, spingendo il dolore ben oltre la sua soglia di sopportazione.

Amiamo Dantés soprattutto perché sa essere grato e sa anche chiedere perdono, e decidiamo che gli somigliamo quando lo vediamo tentare una vita nuova.

Cristina Mosca