Il Nido di Tim Winton (Fazi Editore)

Il nido
Il nido

Tom Keely, ex avvocato ambientalista molto noto, ha perso tutto. La sua reputazione è distrutta, la sua carriera è a pezzi, il suo matrimonio è fallito, e lui si è rintanato in un appartamento in cima a un cupo grattacielo di Fremantle, da dove osserva il mondo di cui si è disamorato, stordendosi con alcol, antidolorifici e psicofarmaci di ogni sorta. Si è tagliato fuori, e fuori ha intenzione di restare, nonostante la madre e la sorella cerchino in ogni modo di riportarlo a una vita attiva. Finché un giorno s’imbatte nei vicini di casa: una donna che appartiene al suo passato e un bambino introverso. L’incontro lo sconvolge in maniera incomprensibile e, quasi controvoglia, permette che i due entrino nella sua vita. Ma anche loro nascondono una storia difficile, e Keely presto si immerge in un mondo che minaccia di distruggere tutto ciò che ha imparato ad amare, in cui il senso di fallimento è accentuato dal confronto continuo con la figura del padre, Nev, un gigante buono impossibile da eguagliare. 

 

Recensione:

“E Quindi.”

Così comincia questo romanzo di Tim Winton che ho avuto il privilegio di leggere in anteprima. L’incipit confonde. Un flusso di coscienza che inizia con elucubrazioni sul modo in cui è comparsa una macchia sul tappeto. Il narratore ci racconta come se fossimo vecchi amici, ci introduce nel mondo di Tom Keely con leggerezza, parlando di cose futili, il tempo, il paesaggio, l’appartamento, e poco per volta ci lascia pervadere da un’atmosfera pesante, che si diffonde come nebbia fra le righe e ci attanaglia come fossimo seduti su quella poltrona anche noi.

“C’era questa macchia sul tappeto, una chiazza umida grande come un tavolino da caffè. Non aveva idea di come si fosse formata. Però vedendola si allarmò.

Fino a quel momento, il giovedì non gli era mai sembrato molto minaccioso.

Era una cosa abbastanza semplice, svegliarsi tardi e con comodo al suono delle campane del municipio. Le otto, le nove, forse le dieci del mattino – Keely non aveva voglia di contare i rintocchi. Quel suono così austero, calvinista, gli dava ai nervi. Anche chiusi, sentiva gli occhi affaticati dal vino. Temporeggiò per ritardare l’inevitabile, chiedendosi quanta sofferenza fosse in agguato. Faceva già caldo nel piccolo appartamento, gravido ed ebbro delle cicche, delle docce, delle fritture e delle saponate altrui. Gli odori dei suoi bravi vicini. Ovverosia il tanfo degli estranei, perché i suoi compagni di condominio erano, per lui, degli alieni – nel modo più completo e soddisfacente; anonimi e scollegati dal suo mondo, inoffensivi, nient’altro che tonfi e schiarite di gola dietro a delle spesse pareti spoglie, echi di risate e cattivi odori a cui non sentiva il bisogno di dare un volto. Specialmente la pazza della porta accanto – che era la più strana in assoluto. In tutti quei mesi non l’aveva mai vista. Sapeva solo che dedicava buona parte delle sue giornate a difendersi dalle lusinghe di Satana. Che era senz’altro un lavoro onesto, ma anche molto fastidioso. Soprattutto per lui. Per il momento osservava un pietoso silenzio, forse perché ancora dormiva, oppure aveva concordato una tregua con Belzebù tra colazione e pranzo – volesse Iddio. E volesse anche che se ne stesse buona finché non si erano esauriti tutti i velenosi postumi dello Shiraz Barossa della sera prima.”

La vita di Tom è un completo disastro. E la nostra testa gira insieme alla sua, forse per i postumi di una sbornia, forse per una depressione ingombrante che palpiamo concretamente. Bravissimo l’autore a ironizzare mentre il mondo di Tom implode. Così appare tutto ancora più grottesco.

“Keely si lasciò cadere sulla sua poltrona solitaria e guardò oltre il balcone, con le sue concrezioni coralline di sterco di piccione. Non era il caso di andare nel panico per un po’ di umidità sul tappeto, lo sapeva bene: eppure il cuore gli arrancava in petto come un diesel rotto. E rieccolo, quel fottuto luccichio. Maledetta testa del cazzo. Tutte quelle settimane. Mersyndol, pasticche di codeina grosse come squali; prima o poi dovevano fargli effetto. Ovvio. Ma ancora non le sentiva emergere dalle acque. Nuotate, bastarde. Faticava a concentrarsi, a guardare oltre le sue ginocchia pelose, verso il tappeto color grigio scuro, e a trovare un motivo per una provocazione del genere, a ragionare su quella macchia d’umido senza andare nel panico. “

Un piccolo barlume lo intravediamo quando incontra una vicina di casa. Interagire con gli altri non gli riesce spontaneo, si avverte, eppure lei si insinua nella sua vita, anzi ritorna perché già la conosceva. E forse, finalmente, Tom intravede un po’ di luce e sollievo e un ricordo che fa già famiglia:

“Comunque, mormorò lei.

Già.

Ti lascio, prima che caschi per terra.

Ok.

A ogni modo mi chiamo Gemma, in caso te lo stessi chiedendo.

Gemma? Gemma Buck? Dici sul serio?

No, me lo invento. Ma ti pare?

Io, mi…

Ma se n’era già andata.

Il letto gli venne incontro a metà strada.”

Così iniziamo a entrare in contatto con la vita precedente del protagonista, quando era ragazzo, con le abitudini e le perversioni della comunità e a comprendere, poco per volta, cosa lo ha portato a un tale stato di disperazione alla perdita del lavoro.

“La sua casella di posta era zeppa di mail non lette, provenienti per lo più da amici e colleghi sgomenti o esasperati, anche se le più recenti avevano già parecchie settimane. Gli bastava leggere l’oggetto del messaggio per vedere come la sollecitudine poco a poco sfumava in un silenzio piccato, se non peggio. Due delle ultime mail, mandategli da certi tizi a cui aveva promesso dei briefing di importanza vitale sul tema dei terreni paludosi, titolavano semplicemente «MA CHE CAZZO… ???». Stratificati nel tempo, tutti quei messaggi senza risposta parevano un reperto archeologico senza importanza, un registro dei suoi fallimenti. Era assurdo e avvilente conservarli in quel modo. Era stanco di rileggerli, di scorrere la lista su e giù, di soffermarsi ora su questo ora su quello, come se potesse trovare il coraggio di aprirli. Era ora di farla finita.

Si alzò, raggiunse la portafinestra con passo deciso, guardò un momento il mare, poi tornò al tavolo ed eliminò definitivamente l’indirizzo di posta elettronica, mandando tutto al diavolo finché ne aveva il coraggio.”

Basterà quell’incontro con una donna venuta dal passato per fargli tornare la voglia di rimettersi in gioco? E fargli superare i vuoti irrisolti per la perdita del padre?

Suo padre.

Di nuovo.

Sempre.

Il padre.

Keely tornò verso casa trafitto ma più o meno in sé, come se la franchezza di Wally l’avesse momentaneamente ricomposto.

Frustrato dal fatto che, alla fine, tutto girava sempre intorno a quello. Faith diceva che bisognava ricordargli sempre di avere anche una madre, un genitore che non era morto da trentacinque anni.

Eppure restava lì. Quel buco a forma di padre che aveva dentro, caldo, profondo e più reale di qualsiasi altro concetto che riuscisse a esprimere.

Neville Keely. Il giovane orso consegnato all’eternità. Come se la sarebbe passata, se fosse sopravvissuto? In quell’era dominata dai rettili e non dagli orsi?

Mi è piaciuto molto lo stile veloce della voce narrante, che non giudica mentre espone, che non anticipa e non biasima né compatisce. Tanti i dettagli, i dialoghi che ci fanno subito prendere confidenza con i luoghi, le persone e vien voglia di saperne di più, di girare ancora una pagina…

A far da sfondo, poi, Perth e l’Australia, le lotte per la salvaguardia dell’ambiente e una natura prepotente, i gabbiani e il mare, gli yatch ormeggiati sulle banchine dove fermarsi a pensare:

“Doris abitava in un imponente edificio di legno in stile edoardiano, in un quartiere periferico di Perth. Stando sotto casa sua, in riva all’acqua, guardando a monte oltre le spire del fiume, si scorgevano le torri dai mille occhi del distretto finanziario, con dietro la pianura ammantata di un rosso scintillante. Le colline erano avvolte dalla nebbia di un incendio boschivo, che formava un baluardo color giallo sporco contro il mondo esterno. A volte Perth sembrava veramente un’isola, una nazione a sé stante. Quel piccolo, sfacciato avamposto di affaristi e cercatori d’oro guardava instancabilmente al futuro, anche se da qualche tempo era tenuto in vita artificialmente – con acqua marina desalinizzata e quel poco che restava delle vecchie falde. Dietro a quel velo di fumo si estendevano la cintura del grano e i calanchi corrosi dal sale, che solo un secolo prima erano ancora un bosco lussureggiante grande quanto metà della Polonia.”

Il romanzo è lungo 350 pagine, forse troppe, ma la scorrevolezza delle frasi e i dialoghi serrati lo rendono piacevole e ci si accorge che è finito presto. Soprattutto la seconda parte, quando il registro cambia e all’ironia subentrano tensione e il dramma di un’infanzia in pericolo, l’amore di una nonna e quello di un vicino che prima di rendersene conto è pronto a rischiare la vita per difendere un bambino. Fra deliri, sogni e psicofarmaci Tom si troverà presto a fare i conti con le conseguenze delle sue azioni, eroismi e vigliaccherie. Anche quando non ricorda di averle commesse…

 

Anita