“Il richiamo della foresta” di Jack London (Einaudi)

“Il richiamo della foresta” di Jack London (Einaudi 1995), trad. Gianni Celati

“Il richiamo della foresta” è un romanzo di Jack London del 1904, tradizionalmente inserito nella narrativa per ragazzi. Nonostante il genere sia molto lontano da quelli che amo, sono incuriosita da Jack London, che ho amato in “Martin Eden” e mi stupisce per la sua versatilità; perciò ho aderito alla lettura condivisa di gennaio di Leggoquandovoglio e la #Maratonaclassica2023.

Di Jack London Chilidilibri ha recensito anche “Zanna bianca” e “In un paese lontano”.

Cos’è “Il richiamo della foresta”

Tutta la storia è narrata in terza persona dal punto di vista di Buck, un incrocio tra un San Bernardo e un pastore scozzese, rapito nel 1897 dalla sua casa in California per tirare slitte nella famosa corsa dell’oro nel Klondike.

Nonostante le difficoltà iniziali, il cane scopre di sentire il richiamo degli avi. Presto vede la vita selvaggia non più come qualcosa a cui lui si deve adattare bensì come un ricordo che si riaffaccia nella mente. Gesti già compiuti, odori già inseguiti.

Riscoprirà le dinamiche del branco e inizierà a primeggiare nel suo lavoro, come se lo avesse sempre fatto. Anche quando si trasferirà, con un nuovo padrone, ai margini della foresta.

Secondo Wikipedia, la prima edizione de “Il richiamo della foresta” è stata pubblicata nell’agosto 1903 dall’editore Macmillan di New York e conteneva 18 illustrazioni a colori.

Punti di forza

Ascoltando in Audible “Il richiamo della foresta” letto da Marco Baliani (ed Einaudi) non mi riuscivo ad accontentare della lettura superficiale. Non riuscivo a guardare i personaggi per quello che erano: un gruppo di cani non addomesticabili fino in fondo.

Mi è venuto spontaneo vedere questo romanzo breve come un’allegoria dell’atavico conflitto tra lo stato naturale dell’uomo e la civiltà, tra l’istinto e la ragione. Ho pensato per tutto il tempo ai temi, simili, de “Il lupo della steppa” di Hermann Hesse (1927), e al fatto che Freud pubblicò le sue prime teorie sull’inconscio a cavallo tra i due romanzi, nel 1915. Ho pensato alle teorie settecentesche di Rousseau sullo stato di natura; e infine all’era edoardiana, in cui “Il richiamo della foresta” è stato scritto. La stessa che si conclude con l’affondamento, insieme al Titanic, di tutte le certezze che erano state riposte nell’uomo e nel progresso.

Visto in questo contesto molto più ampio, mentre “Il richiamo della foresta” mostra cani ringhianti per la contesa di una slitta (tra l’altro un elemento antropico) io penso alla lotta per la sopravvivenza dell’uomo civilizzato che sgomita nel mondo della produzione di massa per mantenere il lavoro. È la denuncia alla base darwinismo sociale, una corrente di pensiero che prende piede negli anni ‘80 del 1800, con senso dispregiativo.

Per fortuna, però, sia nel romanzo sia nella vita ci sono anche le relazioni di amicizia a dare un senso a ogni cosa.

Però, però, però…

Il fatto che il genere di avventura o che di storie di animali non mi riesca a conquistare non aiuta una valutazione entusiasta di questo classico.

Chi è diffidente come me e ha paura di annoiarsi può però considerare che la narrazione è rapida e ha un ritmo molto sostenuto, quasi giornalistico.

C’è poco spazio per l’introspezione, perché gli umani vengono visti dall’esterno, e c’è molta azione. Questo rende il romanzo scorrevole e incisivo, tanto nei tempi apparentemente morti quanto nelle scene di confronto, a volte anche violento.

Lo rende però anche scivoloso, nel senso che, per quanto mi riguarda, si passa il tempo a chiedersi dove voglia andare a parare la trama, fatta di più punti di rottura, e quale sia il messaggio nascosto.

Forse, semplicemente, dobbiamo accogliere “Il richiamo della foresta” così com’è, per la sua storia di legame tra uomo e animale, e per il monito sul nostro legame atavico con la natura.

Cristina Mosca