Iliade – di Omero

Iliade,
di Omero,
Marsilio 1990

L’iliade racconta del leggendario assedio di cinquantuno giorni di una città dello stretto dei Dardanelli, Troia, allora chiamata Ilio, nell’ultimo anno di di una guerra lunga due lustri che segnò il primo trionfo dell’Occidente sull’Oriente e che quindi divenne mitico nella storia dell’Ellade.

L’Iliade è il poema più antico dell’Occidente ed è ritenuto la prima e fondamentale opera dei Greci. Secondo le varie ricostruzioni è ambientato nel 1200 a.C. ed è stato tramandato in maniera prettamente orale per almeno quattro secoli sotto forma di racconti sparsi. Si dice che questi racconti abbiano iniziato a vedere una certa organicità e a circolare in una forma scritta a partire dal 750 a.C. o addirittura 150 anni prima, in edizioni diverse, personalizzate a seconda dei committenti e delle città, e che a scuola lo usassero per insegnare ai bambini a leggere. Viene attribuito a Omero ma di fatto non siamo ancora completamente sicuri che Omero sia realmente esistito.

Perché ho deciso di affrontare la lettura dell’Iliade?

-Prima di tutto perché ho avuto l’occasione di parlarne con qualcuno che l’aveva letta di recente.

-Poi perché dovevo soddisfare un task della challenge di Goodreads su un classico latino o greco e nessuno dei due fa parte dei miei orizzonti consueti.

-Perché i miei studi mi hanno portata a leggere letteratura prevalentemente mitteleuropea e avevo una lacuna da colmare.

-Infine, perché i classici non passano mai di moda. Lo dimostrano anche alcuni gruppi di lettura virtuali che vanno per la maggiore (due esempi: il #gdlclassicamentelibri di Adele o la #MaratonaClassica di @leggoquandovoglio).

Di che parla l’Iliade? Dell’ira e dell’onore. Dell’amicizia e del riscatto. Infine, degli dèi.

La trama.

Da ormai nove anni le parti in guerra sono i Greci da una parte e i Troiani dall’altra. Uno dei pretesti è riprendersi Elena, moglie di Menelao di Sparta (quindi un Greco) e rapita da Paride Alessandro, che è il secondogenito di Priamo, re di Troia. Agamennone, capo dell’armata achea e fratello di Menelao – entrambi figli di Atreo, infatti chiamati anche Atridi – vuole togliere al suo guerriero Achille la schiava Briseide perché lui viene costretto a privarsi della sua Criseide.

Iliade, Libro VIII, versi 245-253 , da un manoscritto greco di fine V secolo o inizio VI secolo.

Achille si offende e, irato, praticamente sciopera: se ne torna alle concave navi. La sua fama di combattente però è tale che i suo compagni hanno bisogno di lui. Visto che di farlo scendere in campo non c’è verso, convincono Patroclo a farlo lui, con la sua armatura.

L’obiettivo è scoraggiare gli avversari: invece Ettore, figlio del re di Troia, ne approfitta per uccidere quello che lui crede il potente guerriero Achille. È subito panico: come dirlo ad Achille, che a Patroclo era legato da un affetto profondo (si vocifera, tra i posteri, di storia omosessuale)? Attraverso più canti stiamo in pensiero anche noi, finché la notizia finalmente non lo raggiunge e c’è questa scena molto dolorosa di lui che cade a terra e sprofonda steso nella polvere, stracciandosi i capelli “a ciocche”, inconsolabile anche da sua madre.

L’ira con cui ci era stato presentato nel primo dei ventiquattro libri a causa del torto su Briseide esplode incontenibile: Achille uccide Ettore per vendicare Patroclo e, non pago, oltraggia il suo corpo trascinandolo in circolo sopra la tomba dell’amico per diversi giorni.

L’Iliade si conclude con la consegna del corpo di Ettore alla sua famiglia, quindi senza mostrarci la fine della guerra.

Punti di forza.

Voglio spendere innanzitutto due parole a favore della versione in prosa del 1990 tradotta da Maria Grazia Ciani e pubblicata da Marsilio (tascabili). Con questa traduzione vinse il Premio Mondello 1991. Quando me l’hanno prestata l’ho definita, scherzando, l’“Iliade for dummies” e quindi adatta a me, che per formazione sono lontana dalla cultura classica. Ben presto mi sono dovuta rendere conto che ai fini di una conoscenza generica come quella a cui miravo io, questa versione non era solo adatta a me: è stata perfetta per me. La discorsività della prosa aiuta moltissimo a districarsi in una situazione piuttosto intricata a forza di epiteti, perifrasi e patronimici.

“«(…) e la mia fama non morirà mai». Così parlò, e tutti rimasero muti, in silenzio; avevano vergogna di rifiutare, paura di accettare (…)”

Mi sono meravigliata per la buona conoscenza del corpo umano (troviamo parole come faringe e diaframma) e la vocazione truculenta con cui vengono raccontate le morti in battaglia. Veniamo deliziati da precise balistiche di lance e frecce, descrizioni minuziose di trafitture selvagge e omaggi più o meno ridondanti ai singoli eroi che nella letteratura contemporanea sarebbero improponibili.

Mi soffermo sugli eroi. Ne l’Iliade piangono per la morte dei compagni, li seppelliscono in un’alba così addolorata che sembra di sentirne il silenzio, e sono anche capaci di ridere goliardicamente quando un personaggio finisce in mezzo al letame e ne esce sputacchiando. La loro umanità è stato un altro motivo di stupore, ma se ci riflettiamo era un motivo ricorrente nell’epica classica: nella mitologia mesopotamica piangeva Gilgamesh per il suo amico Enkidu, in Inghilterra piangono nell’VIII secolo d.C. uno dei protagonisti del poema epico Beowulf nel Medioevo re Artù quando deve andare in guerra contro il suo amico Lancillotto.

“Così combattevano dunque, simili alle fiamme del fuoco”

Efesto (Vulcano) nel cartone animato Pollon combinaguai (1982)

Ci sono dei passaggi che ho apprezzato tantissimo per la liricità e per le similitudini o metafore che ho trovato originali. È molto vivida l’immagine delle corazze dell’esercito che si muovono a ondate e scintillano come un mare.

Le parti che ho preferito sono state quelle legate agli dèi. Appartengo alla generazione che è cresciuta con il cartone animato Pollon Combinaguai e non ho potuto fare a meno di figurarmi le scaramucce tra i fratelli Ares e Atena davanti a Zeus, di sorridere all’arte seduttiva di Era (che sa come distrarre suo marito) e di visualizzare Efesto nella sua fucina con la benda sull’occhio. Questo ha sicuramente reso più leggera, anche se forse irriverente, la lettura di cinquecento pagine.

Però, però, però…

È pesante leggere l’Iliade? Il rischio di annoiarsi c’è, certamente. Il suo ritmo e la sua struttura sono molto lontani dalla nostra mentalità e dalle nostre abitudini. Una peculiarità fra tutte è l’essere stato pensato per la trasmissione orale e non per la lettura: si vede da quel verso solido e potente che è l’esametro dattilico, ma anche nelle reiterazioni e nelle circonlocuzioni che la riempiono. Questa ricchezza di definizioni e di descrizioni rende, purtroppo, l’Iliade un poema tendenzialmente prolisso e potenzialmente dispersivo e uno storytelling praticamente anti-narrativo, se guardassimo solo i canoni di oggi.

Il pathos viene distribuito quasi uniformemente, quindi depotenziato a tratti; le azioni incisive si mescolano a quelle funzionali; la presenza di tantissimi nomi e patronimici non aiuta a mantenere ferma la rotta.

Grazie alla versione in prosa che è capitata a me, tuttavia, questa difficoltà è stata abbastanza compensata dalla forza di tutto il resto, dalla ricchezza di azione e anche dalla caratterizzazione dei personaggi. È una lettura che mi sento di consigliare anche nel 2020 e anche se riteniamo che lo studio dei classici non faccia per noi. Oggi abbiamo il vantaggio di una serie di strumenti – dai motori di ricerca on line ai romanzi a tema che fioccano in libreria ogni anno – che ci aiutano a comprendere questo lavoro meglio e seduta stante. E a uscirne gratificati.

Cristina Mosca