“La fabbrica di cioccolato” – Roald Dahl

“La fabbrica di cioccolato” di Roald Dahl (Salani 2012)

“La fabbrica di cioccolato” è un romanzo di Roald Dahl del 1964 che gode di due famose versioni cinematografiche: la prima è del 1971 con Gene Wilder ma è stata rinnegata da Roald Dahl, e la seconda è del 2005 ed è di Tim Burton, con Johnny Depp.

Quest’ultima è molto fedele al libro e perfino alle illustrazioni; a volte presenta perfino le stesse battute. Mio figlio l’ha guardata con il testo davanti e ha potuto riconoscere sullo schermo alcuni dei disegni di Quentin Blake proposti in Italia nell’edizione Salani degli anni Novanta (noi abbiamo letto la ristampa del 2012).

Cos’è “La fabbrica di cioccolato”

Pare che il romanzo “La fabbrica di cioccolato” esca direttamente da un ricordo di Roald Dahl: accanto al suo college ne sorgeva una e permetteva agli alunni di fare da assaggiatori.

La trama è abbastanza nota. Willy Wonka mette in palio una visita nella sua affermata fabbrica di cioccolato: sarà consentita a cinque bambini che troveranno i biglietti dorati nascosti nelle tavolette in vendita in tutto il mondo.

I vincitori sono l’ingordo Augustus, la viziata Veruca, l’ambiziosa Violetta, l’arrogante Mike e l’ingenuo Charlie. Ognuno si troverà a fare i conti con le proprie debolezze.

Punti di forza

“La fabbrica di cioccolato” è diventato un classico perché tocca le corde della fantasia e perché lavora su stereotipi ben riconoscibili. Si propone come favola educativa – e un po’ inquietante – proprio perché stigmatizza come guasti i tipici atteggiamenti che si cerca di correggere in un bambino.

Abbiamo la ragazzina scostumata e quella viziata, abbiamo il bambino con disturbi alimentari e quello teledipendente. E abbiamo Charlie, che rappresenta il povero in soldi ma ricco di spirito, portatore di valori sani come l’altruismo e la famiglia. È il detentore del messaggio di fondo del romanzo: “chi si accontenta gode”.

La marcia in più del romanzo è nella figura dei genitori, che sono dichiaratamente chiamati a badare a loro e fare in modo che non si mettano nei guai. Alla luce di questa raccomandazione, il regno di Willy Wonka è una cartina al tornasole degli stili educativi: il luogo dove i grandi non solo devono fare i conti con il modo in cui hanno cresciuto i loro figli, ma non possono nemmeno intervenire in loro soccorso.

La fabbrica di cioccolato è solo in apparenza un luogo di magia e di meraviglia. Ha le stesse insidie del Paese dei Balocchi di Collodi, perché tutti i nodi vengono al pettine e nessuna malafede e nessun vizio sono perdonati.

Però, però, però…

Qualcosa ne “La fabbrica di cioccolato” non mi ha mai coinvolta fino in fondo ed è un aspetto che emerge in entrambi i film. C’è un retrogusto grottesco e macabro nell’indifferenza con cui Willy Wonka assiste alle punizioni dei suoi giovani ospiti. Il suo personaggio è anaffettivo, impassibile ed egoriferito. Probabilmente sa già che si tratta di penitenze reversibili, non definitive: ma il lettore, lì per lì, è sgomento.

Certo la lezione è chiara: varcare i limiti imposti comporta sempre un rischio, e spesso si scopre l’entità del danno quando è troppo tardi. I bambini che gradualmente vengono allontanati dalla scena sono bambini che agiscono con impulso e che non tengono da conto la saggezza dei più grandi.

Può sembrare uno stile pedagogico un po’ fuori moda, ma a mio parere aiuta a ricordare il peso dei no nell’educazione: un problema che, al contrario, mi sembra molto di moda.

Cristina Mosca