“La signora di Cariddi” – Livia De Stefani

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“La signora di Cariddi” di Livia De Stefani (1971)

“La signora di Cariddi” (Rizzoli 1971) è uno degli ultimi romanzi pubblicati dalla scrittrice siciliana Livia De Stefani prima di morire. Distanzia di venti anni “La vigna di uve nere” (Mondadori 1953), il suo romanzo più famoso, in cui viene presentata una dura denuncia della mafia siciliana. Di Livia De Stefani oggi sono reperibili pochi romanzi, come “Viaggio di una sconosciuta” (Cliquot 2018), ma le sue carte private saranno presto consultabili nella Casa Internazionale delle Donne a Roma.

L’ho letto perché ero curiosa di conoscere meglio questa autrice, la quinta di cui si occupa Giulia Caminito in “Amatissime” (Perrone 2022), ed è l’unico che ho trovato nella biblioteca del mio Comune. Ho letto il saggio di Giulia Caminito insieme al Book Club della libreria Primo Moroni guidato da Maristella Lippolis.

Cos’è “La signora di Cariddi”

Il romanzo è presentato come una lunghissima lettera che la protagonista, Emanuela Lolli, vedova del duca di Cariddi, scrive al proprio avvocato. La donna è in carcere. Formula una lunghissima confessione-fiume – un’autoaccusa, la definisce – che parte dal suo rapporto con gli uomini e si allarga alla storia della sua famiglia. Una confessione che ci riporta a “L’adultera” di Laudomia Bonanni, pubblicata pochi anni prima.

“La festa si svolgeva col carattere colloso comune agli altri happening in cui negli ultimi tempi capitavo, sconosciuta agli sconosciuti, per trascinare insieme il peso della notte fino alla fossa dell’indomani. Mi adattavo alle situazioni con una facilità mimetica che rendeva anche me senza età e senza peso”

La Duchessa è sostanzialmente infelice e lascia che i suoi vuoti vengano colmati dai corpi di altri uomini. La storia di queste relazioni viene alternata ad aneddoti famigliari, alcuni tragicomici, altri commoventi.

Punti di debolezza

“La signora di Cariddi” non è un libro semplice. L’ho preso per curiosità, per costruirmi un’impressione personale prima di leggere lo stralcio di biografia elaborato da Giulia Caminito, e sono stata sul punto di lasciarlo a metà, esasperata.

Non solo l’intreccio segue più di un filo narrativo, ma è scritto con un linguaggio cervellotico, volutamente evocativo, figlio del flusso di coscienza proposto da James Joyce e Proust (anche citati nel romanzo) ma più oscuro, circonvoluto, divagante.

“(…) il sortilegio emanante da quella casa mi dava la sensazione di entrare a nuoto in un mare che non faceva resistenza, vaporoso”

Ho trovato degli andirivieni temporali troppo destabilizzanti. In alcuni tratti la narrazione appare come una scatola cinese, in cui la protagonista sembra raccontare di un amante soltanto al foglio, invece dagli interventi realizziamo che sul foglio sta riportando la conversazione di un amante con un altro amante, che ci disorienta con i suoi commenti. Insomma, un romanzo abbastanza affollato.

“È naturale, le parole sono monete fuori corso, non servono più, non ci si ottiene più niente, valgono soltanto le immagini”

Quando la protagonista si concentra su alcuni dei suoi parenti, inoltre, lo fa spesso a sorpresa, in mezzo a un discorso o alla descrizione di un evento, e il povero lettore deve quasi seguire il libro con la bussola se vuole ricordarsi dove si trova, quando e con chi.

Però, però, però…

L’altra faccia di questa scrittura cervellotica, però, è il pregio della sua ricercatezza. I passaggi migliori sono quelli introspettivi, in cui l’autrice dà il meglio di sé, del suo disincanto, della sua amarezza.

È affascinante riconoscere tra le righe l’“ego debordante” con cui Giulia Caminito descrive l’autrice. La protagonista del romanzo racconta a testa ritta le sue sofferenze e la sua solitudine, a tratti con una punta di compiacimento.

Inoltre, al tempo de “La signora di Cariddi” Livia De Stefani ha quasi sessant’anni ed è divorziata da circa venti: come la sua protagonista, è libera di seguire le sue inclinazioni. Emanuela insegue il bisogno rinnovato di sentirsi amata. Di Livia ci sono “poche relazioni note”, ma mi piace pensare che nel romanzo abbia riversato tutto il possibile e l’impossibile delle sue fantasie.

Cristina Mosca