“L’angelo nero” di Antonio Tabucchi (Feltrinelli)

“L’angelo nero” di Antonio Tabucchi (1991)

“L’angelo nero” di Antonio Tabucchi è una breve raccolta di racconti pubblicata nel 1991 da Feltrinelli e poi ripubblicata nel 2001. Io ho comprato al mercatino dell’usato l’edizione Club degli editori 1991.

Cos’è “L’angelo nero”

I sei racconti contenuti ne “L’angelo nero” hanno accompagnato l’autore “durante un certo periodo” della sua vita. Nella prefazione, lui stesso ammette di essersene stancato e di aver deciso di non accompagnarli con delle note, contrariamente a quello che aveva pensato inizialmente, perché “che se ne vadano così, come sono venuti”.

Il titolo è un tributo a Eugenio Montale.

I racconti sono: “Voci portate da qualcosa, impossibile dire cosa”; “Notte, mare o distanza”; “Staccia buratta”; “Il battere d’ali di una farfalla a New York può provocare un tifone a Pechino?”; “La trota che guizza fra le pietre mi ricorda la tua vita”; “Capodanno”.

Punti di forza

Certo è impattante vedere che un periodo può durare anche 48 righe. Lo è ancora di più non essere svenuti nel frattempo, anzi aver provato una sensazione più simile a quando si viene cullati.

Ogni volta mi avvicina ad Antonio Tabucchi il desiderio del suo stile ricorsivo, che mi riporta ogni volta al mio amato Saramago, e non mi spaventa mai il pensiero di stargli dietro.

Inoltre, sulla bandella de “L’angelo nero” si parla di racconti gotici, per cui le mie aspettative si sono alzate.

“Ma il granduca guarda verso il mare coi suoi occhi vuoti, ora le nuvole che si sono messe a galoppare fanno galoppare anche il suo destriero, come se volassero via insieme verso il loro passato, anche loro all’incontrario”

Il gotico c’è, senza dubbio, nelle voci udite dai personaggi, negli angeli che compaiono in uno specchio, nella percezione del Male che ci cammina accanto.

Però, però, però…

Però Antonio Tabucchi non è Shirley Jackson e il lettore, secondo me, non si sente accompagnato per mano. “L’angelo nero” è evocativo, allusivo, anche inquietante se vogliamo. Le vicende sono incalzanti, misteriose: eppure l’impressione è di continuare a girare in tondo, senza vedere mai chiaramente.

I primi due racconti sono collegati tra di loro, ma ho impiegato un po’ a capire se lo fossero anche gli altri. I personaggi cambiano, o meglio, smettono di avere un nome, quindi la sensazione è di racconti slegati a livello narrativo.

In tutti, però, prima o poi c’è un pesce che compare, a volte anche insensatamente, specie se siamo dentro una visione.

Ho concluso questo libro un po’ perplessa.

Di Antonio Tabucchi ho recensito “Notturno indiano” un anno fa, e ricordandomi che neanche quello scritto mi ha particolarmente appassionata, mi chiedo perché io gli continui a dare nuove possibilità. Forse, come per De Balzac, mi intestardisco a parlarci perché non riesco a individuare cosa ci sia di sbagliato nella chimica tra noi due.

Cristina Mosca