“L’imputata” di Laudomia Bonanni (Bompiani)

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“L’imputata” di Laudomia Bonanni (1960)

Con “L’imputata” (Bompiani 1960) Laudomia Bonanni si conquistò la cinquina del Premio Strega insieme a Italo Calvino e Giovanni Arpino (ma quell’anno vinse Carlo Cassola con “La ragazza di Bube”) e ottenne il Viareggio. Con questo romanzo si impose al grande pubblico, a cui seguirono, nel giro di una ventina d’anni, “L’adultera” e “Il bambino di pietra”.

Dal 2007 “L’imputata” è di nuovo sul mercato grazie alla casa editrice Textus, ma nella biblioteca del mio paese ho trovato l’edizione originale, con in copertina un particolare de “Le strane maschere” del pittore belga James Ensor. Ho letto questo romanzo perché scelto dal Club del libro della Libreria Primo Moroni di Pescara.

Cos’è “L’imputata”

Il romanzo si apre con un omicidio, un corpo in terra. I primi testimoni oculari sono i bambini, ma sappiamo che “le donne se vogliono raccontano una persona, i bambini l’inventano”. Inizia così una digressione nelle vite dei condòmini – soprattutto delle donne e dei bambini – che dura tutto il libro. Le voci, le ragazze incinte mandate in ospedale “per un’appendicite”, progetti di matrimonio, la fame, l’affannarsi per il cibo, le carni sciolte, e tutte queste donne, la sorellanza, i gridi di richiamo, i bambini ad affogare insetti nell’acqua sporca della vasca. Il protagonista principale è il cortile: è questo, l’osservatorio privilegiato. Il punto di vista si sposta poi nelle case, dietro le porte, accanto alle donne che si stringono la testa fra le mani per non gridare, le donne che invece gridano, partoriscono.

Il romanzo si chiude a cerchio, concludendosi con il processo all’omicidio. Tutt’intorno, la surreale innocenza dei bambini.

Punti di debolezza

“L’imputata”, signori miei, è un romanzo difficile da leggere. Laudomia Bonanni ha lavorato al suo impianto per molti anni, partendo da un embrione del 1949 (“Grigio all’alba”, in seguito “Processo alla casa”). Il risultato è un grumo di storie che portano in sé dolore e sopravvivenza, condanna e resilienza.

“Fu il periodo tetro dell’inverno, quando tutto è intriso di umidità, il cielo combacia coi tetti e le scale e gli androni delle case sono sordi. La mattina ti svegli e la vita non ricomincia, non la senti. Ha di nuovo nevicato.”

Il pensiero del morto sembra sparire dopo le prime cinquanta pagine e riapparire alle ultime cinquanta, facendoci pensare a un altro romanzo nel romanzo, due romanzi scollegati. È una trama che si fa inseguire, spesso poco esplicita; è un patto con l’arte romanzesca dell’autrice.

Un errore da non fare quando si legge questo libro è aspettarsi un poliziesco.

Però, però, però…

La scrittura della Bonanni è superlativa. Appena il lettore accetta di non focalizzarsi sulla trama ne vede tutta la potente musicalità. Tutti i periodi sono cesellati e accordati su un ritmo interno, che ci incanta come se fossimo serpenti.

“Esposto sulla pedana, con le braccia lunghe di quell’età penzolanti, la rapatura grigia, una guancia smunta e macchiata, il ragazzo conservava nella sua miseria qualcosa d’inviolabile”

Con poche parole, perfette e calcate, vengono ritratti i personaggi in maniera così viva e pulsante che qualsiasi nostro altro interesse per l’intreccio può venire a cadere. Le situazioni di disagio e povertà vengono mostrate in totale assenza di giudizio della voce narrante tramite le voci, i fatti, le pulsioni della pubertà, i pensieri di madre.

“Essere ragazzi è l’orribile condizione di chi si trovi sempre impreparato”

Se volete vedere delle foto del famoso caseggiato a cui “L’imputata” è ispirato sono qui.

Cristina Mosca