L’inverno di Giona – di Filippo Tapparelli (Mondadori)

L’inverno di Giona

di Filippo Tapparelli

Mondadori

Dal sito dell’editore

Io non temo il buio, anzi. Nel buio più profondo anche la paura procede a tentoni e io, invece, ho imparato a vederci.

“Non ti ho mai conosciuto davvero, padre. Uomo sparito, fantasma di un fantasma. Hai carne di vento, pelle di nebbia. Non ti riconosco eppure sei me centomila volte al giorno.” Siamo su una montagna ostile, fa molto freddo. Giona non ha ricordi. Ha poco più di quattordici anni e vive in un villaggio aspro e desolato insieme al nonno Alvise. Il vecchio, spietato e rigoroso, è l’uomo domina il paese e impone al ragazzo compiti apparentemente assurdi e punizioni mortificanti. In possesso unicamente di un logoro maglione rosso, Giona esegue con angosciata meticolosità gli ordini del vecchio, sempre gli stessi gesti, fino a quando, un giorno, non riesce a scappare.

La fuga si rivelerà per lui un’inesorabile caduta agli inferi, inframmezzata da ricordi della sua famiglia, che sembrano appartenere a una vita precedente, e da apparizioni stravolte.

In un clima di allucinata sospensione temporale, il paese è in procinto di crollare su se stesso e la terra sembra sprofondare pian piano sotto i piedi del ragazzo. La verità è quella che appare?

Solo un decisivo cambio di passo consentirà al lettore di raggiungere la svolta finale e comprendere davvero che cos’è l’inverno di Giona.

Filippo Tapparelli, qui al suo esordio letterario, ha scritto un giallo onirico lontano da virtuosismi stilistici e intriso di atmosfere di perturbante ambiguità, descritte con una potenza evocativa straordinaria.

Recensione

Avete presente le targhette sui libri? Quelle che leggiamo e, a volte, ci sembrano talmente esagerate che invece che spingerci all’acquisto, ci spingono a riposare il libro sullo scaffale della libreria. Ecco, io le temo le fascette e ne diffido. Per me hanno sempre il sapore della pubblicità ingannevole.

E che dire quando invece un autore ha vinto il Premio Calvino? Niente, perché il Calvino, dal mio punto di vista, è ancora uno di quei premi “veri”. Quindi, in questo caso, targhetta o non targhetta, mi sono lanciata. Un po’ titubante, ma con la garanzia che dal Premio Calvino escono solo buone opere.

Però, lo stesso, non mi aspettavo che il libro che mi piacesse così tanto.

Lo anticipo: non credo sia un libro per tutti. È un libro particolare. C’è tutta una prima parte, molto ampia, che si svolge in un paesaggio onirico  – all’inizio sembra quasi un distopico -, un paese dove il sole non fa mai capolino, perennemente avvolto dalla nebbia e dal freddo.

I personaggi compiono azioni di cui non si comprende bene il senso. Nonno Alvise è severo con Giona, il nipote quindicenne. Perché è così rigido? Perché lo vessa? E Giona a un certo punto decide di ribellarsi, o forse si ritrova a non avere altra scelta. Il paese parla, gli porta voci, odori, suoni. Vede le vite altrui attraverso le pietre, il vento trasporta dialoghi e voci. Può rivivere i ricordi leccando una fotografia. Ha dei doni, Giona, è particolare, speciale. Ancor più del nonno, che vede tutto e sa tutto. Il paese non vive se non tramite Alvise, è lui che decide i pensieri degli abitanti.

E poi ci sono Norina e il gatto Carbone, che appaiono come fantasmi nel momenti importanti, per proteggere e aiutare Giona. Silenziosi, invisibili fino all’ultimo. Non seguono le regole, loro due, né le leggi di nonno Alvise.

Il lettore è trasportato in questo paesaggio, in questo ambiente onirico, che acquista senso pagina dopo pagina. L’autore ci permette di intravedere, di ipotizzare, di intuire quello che succederà dopo, ci dà l’illusione di capire qualcosa di più del protagonista, per poi accorgerci che abbiamo percorso la stessa strada di Giona, insieme a lui, che non siamo andati più avanti a vedere, perché solo tramite Giona si può vedere.

Mi è piaciuto molto leggerlo. Il paese senza nome, ma con vita propria mi ha attratta e affascinata. Non volevo uscirne, fino a quando l’autore stesso non ha deciso che fosse giunto il momento e, magistralmente, ha cambiato le carte in tavola, le sensazioni da trasmettere e mi ha portata da un’altra parte, in un altro tempo, in un altro mondo.

Capita raramente di capire, alla fine del libro, che come lettore non hai avuto scelta, che pensavi di andare da solo in una direzione e invece no, scopri che l’autore, in maniera silenziosa e forse subdola, ti ha condotto per mano, per tutto il tempo, senza mollarti un secondo, per portarti esattamente dove voleva lui, quando voleva lui.

Capacità rare e preziose. E in qualche modo rassicuranti, soprattutto in un testo così onirico, dove le cose e le azioni rischiano di essere troppo sfumate e poco definite. Tapparelli invece è stato bravissimo a tenere in piedi questo mondo e renderlo reale e tangibile.

Daniela