Abbiamo ricevuto dalla casa editrice “Le assassine” di Milano la prima versione italiana de “L’urlo dell’innocente” del ministro sudafricano Unity Dow.
Unity Dow compie quest’anno 61 anni. È il primo giudice donna dell’alta corte del Botswana e da novembre 2019 è ministro degli affari esteri e cooperazione internazionale. Si è sempre espressa a favore dei diritti civili, in particolare di donne, bambini e gay. “L’urlo dell’innocente” è stato scritto nel 2003 ed è stato proposto in Italia nel 2019 dalla casa editrice Le assassine, per la collana Oltreconfine.
Punti di forza
La narrazione inizia in maniera perturbante. È strutturata come un poliziesco e per i primi capitoli siamo nella testa degli esecutori di un omicidio: anche se non capiamo perfettamente cosa sta per succedere, intuiamo di cosa si tratta e sentiamo crescere l’inquietudine mentre la preda viene seguita e studiata… soprattutto perché è una bambina.
Poi conosciamo Amantle, la protagonista della vicenda, colei che all’inizio dei Duemila è destinata per caso a risollevare un vespaio intorno alla sparizione di una bambina cinque anni prima in una zona rurale del Botswana.
Tradotto da Marina Grassini, il libro è basato sulla storia di Segametsi Mogomotsi, una quattordicenne scomparsa nel novembre 1994 in Botswana e ritrovata nuda e mutilata nel bosco. Si trattava di dipheko, un omicidio rituale tuttora comune in Botswana che prende di mira i giovani studenti. Determinate parti dei corpi vengono utilizzate per atti di stregoneria indirizzati a un avanzamento di carriera o la preservazione di uno status alto. Per l’omicidio di Segametsi Mogomotsi ci sono state testimonianze e il ritrovamento del corpo; c’è stata una sommossa tra gli studenti, ci sono stati processi, arresti e colpi di scena fino al risarcimento per gli accusati.
Nella storia narrata in “L’urlo dell’innocente” il corpo invece non viene ritrovato, ma è dato molto spazio a un tentativo di insabbiamento che intuiamo accadere spesso, anche se attribuito a incompetenza, connivenza o paura. Tra le righe serpeggiano denunce importanti che coinvolgono uomini dalle altissime cariche, come a dire che nessuna categoria è risparmiata dalla degenerazione. E noi rimaniamo lì ad assistere impotenti.
Però però però…
Nonostante abbia apprezzato lo switch dei punti di vista e la forza dell’argomento, ho riscontrato un rallentamento della narrazione durante la parte centrale del romanzo. L’azione si sposta su una serie di trattative, di dialoghi e di riflessioni certo indispensabili per riesumare un cold case ma non utili per alimentare i fatti. Vengono spiegate diverse cose utili, ma su altre si indugia forse un po’ più del necessario, quasi senza considerare che il lettore ne sa un po’ di più dei protagonisti.
Mentre i personaggi si riuniscono in mezzo alla foresta, tra i leoni e le iene che si muovono nel buio, il pensiero del lettore torna impaziente a quell’eccellente immedesimazione dei primi capitoli e desidera tornare alla ripresa dell’azione.
Per fortuna l’attenzione viene puntellata da alcuni aspetti molto caratteristici della cultura africana, fornendo piccoli episodi significativi e preziosi per entrare in questa mentalità.
Il finale, ve lo dico, spiazza.
Riflettendo su questo libro dopo l’ultima pagina, il senso del libro diventa presto chiaro: ci sentiamo, perciò, di perdonare di buon grado una piccola debolezza narrativa di fronte all’importanza di aver portato alla luce un argomento sommerso, pericoloso e a danno dei più deboli come quello degli omicidi rituali.
Cristina Mosca