Mi innamoravo di tutto
Storia di un dissidente
di Stefano Zorba
Un sotterraneo anonimo. Un pavimento in calcestruzzo, polvere, pilastri nudi e vecchi. E sangue.
Un imprecisato servizio segreto italiano ha un prigioniero, un dissidente che si chiama Coda di Lupo. E vuole farlo parlare, con ogni mezzo necessario.
E Coda di Lupo parla, si racconta, scandendo la sua vita sulle note dell’omonima canzone di Fabrizio De André, dall’infanzia e il G8 di Genova fino agli ultimi, disperati anni di resistenza in Val Susa.
Un romanzo che parla di lotta, di resistenza, di Stato, di sofferenza, di morte. E della gioia di lottare, nonostante tutti i sacrifici che questo comporta.
Recensione
Inizio dalla fine, dai ringraziamenti:
“Questo romanzo è per chi crede ancora che lottare per un mondo migliore abbia senso”
Ecco, questo è il libro. Un lungo, accorato, sentito, sofferto e doloroso inno alla vita e alla lotta che dà senso alla vita. Non alla lotta fine a se stessa, ma a quella per gli ideali, per un mondo migliore, per riappropriarci della nostra vita.
“Questo romanzo parla di Stato, quello a cui bisognerebbe togliere l’iniziale maiuscola per quanto è sporco e sanguinario, del suo bisogno di perpetrare se stesso e il suo potere contro tutti i dissidenti che vorrebbero cambiarlo.”
Il romanzo è scritto in prima persona: Coda di Lupo è stato preso. Dopo anni di fuga, di nascondigli, di passi ben misurati, lo hanno catturato e adesso lo vogliono interrogare, con ogni mezzo possibile, per farlo parlare. Per conoscere i nomi dei “complici”, degli altri attivisti, dei No Tav. In un alternarsi tra presente e ricordi, in una continua battaglia interna per mantenere lucidità e non tradire gli amici, il tempo scandito da canzoni, Coda di Lupo ci racconta di sé: le prime manifestazioni, il G8 di Genova, la morte di Carlo Giuliani, il tradimento degli ideali e poi il ritorno sui propri passi.
“Lottare è inevitabile e nobilitante. Nonostante non ci sia speranza. Lottare senza la speranza è l’unica cosa che ci è rimasta.”
“Ripenso a Carlo Giuliani sull’asfalto di Piazza Alimonda. Ripenso a quello che ha significato per me. Per lei. Per noi. Per la nostra generazione. Per tutti quelli che a Genova avevano pensato davvero che un altro mondo era possibile. La fine di tutto. La fine delle speranze, della lotta, dell’impegno. Tutto quello che successe dopo, l’assalto alla Diaz, Bolzaneto, gli arresti, i processi, le notizie falsate, non furono altro che chiodi lunghi e forti da piantare nel legno della bara del nostro attivismo.”
Coda di Lupo è arrabbiato con il mondo, con quelli che decidono come dobbiamo vivere. Ha passato 15 anni da solo, bastando a se stesso, rinunciando a tutte le comodità, per dedicarsi alla causa. E adesso sa che lo uccideranno, ma non prima di averle provate tutte per piegarlo e dimostragli che il sistema è più forte.
Il libro è crudo, ma non esagerato. Alterna fatti reali ad altri inventati. Rievoca i giorni di Genova, in cui un folto gruppo di persone venute da tutto il mondo credeva di poter contribuire a cambiare la rotta, in cui ci siamo illusi tutti che un altro modo fosse possibile, ma che invece è stato strumentalizzato. E torturato, in uno Stato in cui il reato di tortura non è riconosciuto.
È un libro appassionato, scritto da chi a Genova c’era, da chi vive la battaglia dei No TAV. È un libro che descrive l’assurdità di certe situazioni, in cui “i padri picchiano i figli” durante le manifestazioni, polizia contro manifestanti.
In questo libro ci sono i buoni da una parte e i cattivi dall’altra, anche se nella realtà, lo sappiamo, non è sempre così facile distinguerli, e Coda di Lupo, con tutta la sua rabbia, sta dalla parte dei buoni.
La rabbia e il sangue si sposano a meraviglia. Come una sigaretta dopo il caffè.
Poiché i capitolarono introdotti dal testo di De André “Coda di Lupo”, lo riporto per intero:
Quando ero piccolo m’innamoravo di tutto correvo dietro ai cani
E da marzo a febbraio mio nonno vegliava
Sulla corrente di cavalli e di buoi
Sui fatti miei sui fatti tuoi
E al dio degli inglesi non credere mai
E quando avevo duecento lune e forse qualcuna è di troppo
Rubai il primo cavallo e mi fecero uomo
Cambiai il mio nome in “Coda di lupo”
Cambiai il mio pony con un cavallo muto
E al loro dio perdente non credere mai
E fu nella notte della lunga stella con la coda
Che trovammo mio nonno crocifisso sulla chiesa
Crocifisso con forchette che si usano a cena
Era sporco e pulito di sangue e di crema
E al loro dio goloso non credere mai
E forse avevo diciott’anni e non puzzavo più di serpente
Possedevo una spranga un cappello e una fionda
E una notte di gala con un sasso a punta
Uccisi uno smoking e glielo rubai
E al dio della scala non credere mai
Poi tornammo in Brianza per l’apertura della caccia al bisonte
Ci fecero l’esame dell’alito e delle urine
Ci spiegò il meccanismo un poeta andaluso
– Per la caccia al bisonte – disse – Il numero è chiuso
E a un Dio a lieto fine non credere mai
Ed ero già vecchio quando vicino a Roma a Little Big Horn
Capelli corti generale ci parlò all’università
Dei fratelli tutte blu che seppellirono le asce
Ma non fumammo con lui non era venuto in pace
E a un dio fatti il culo non credere mai
E adesso che ho bruciato venti figli sul mio letto di sposo
Che ho scaricato la mia rabbia in un teatro di posa
Che ho imparato a pescare con le bombe a mano
Che mi hanno scolpito in lacrime sull’arco di Traiano
Con un cucchiaio di vetro scavo nella mia storia
Ma colpisco un po’ a casaccio perché non ho più memoria
E a un dio senza fiato non credere mai
Daniela