Pablo Escobar: vita, amori e morte del re della cocaina

di Domenico Vecchioni
Sembra quasi un romanzo, ma non lo è.
Credo che un po’ tutti abbiamo sentito parlare di Pablo Escobar, il più grande
narcotrafficante di tutti i tempi, “il re della cocaina”. Domenico Vecchioni inizia
il suo libro con una premessa storico-politica davvero azzeccata, come un
incipit di tutto rispetto che incuriosisce il lettore, facendoci così capire come sia
potuto succedere tutto quello che leggeremo dopo, e perché proprio in
Colombia e non altrove. Poi l’autore ci presenta Escobar così:
“Pablo ricevette una discreta istruzione a scuola, una buona educazione in famiglia e non
aveva nessuna scusa da invocare per far credere a qualche trauma affettivo o vuoto psicologico.
La verità è che in Pablo albergava fin dall’inizio una personalità criminale, era nato per essere un
bandito, in un Paese dove la violenza era diventata endemica, la corruzione dilagava, la legge
faticava a farsi rispettare, il senso della pietà sembrava sparito e la vita umana aveva perso ogni
carattere di sacralità.”
Pablo Escobar inizia la sua formazione con le rapine, il contrabbando e i
rapimenti, prima di immettersi nel commercio della cocaina, che ne divenne
dipendente solo per i ricavi e non per altro.
“Nel 1973 arrivò per Escobar la prima grande responsabilità: doveva assicurare il ruolo
di mosca, cioè della persona che precedeva il convoglio e andava incontro ai militari o ai
poliziotti, per corromperli in anticipo e ottenere libero transito dei camion… Una volta però le
cose si complicarono. L’ufficiale di polizia che comandava una mezza dozzina di uomini che
sbarravano la strada si mostrò intrattabile e incorruttibile.”
E l’autore ci trascrive come il giovane criminale risolse la questione:
«Tenente, se lei vuole confiscare i miei trentadue camion, avrà bisogno di trentadue
poliziotti in grado di guidare camion pesanti, trentadue assistenti per gli autisti e di
sessantaquattro facchini per scaricare la merce. Ma soprattutto le ci vorranno mille uomini
perché lei dovrà abbattermi sul posto. In altri termini o prende i soldi o metterà in gioco la sua
vita!»
Da quel momento il motto di Pablo Escobar diventa: plata (denaro) o plomo
(piombo); se eri con lui venivi ricompensato adeguatamente, se eri contro
venivi crivellato di proiettili.

Ma vediamo un po’ cosa spinse Escobar a dichiarare guerra allo Stato della
Colombia. Il suo primo problema è sempre stato l’estradizione, chiunque votava
a favore di essa era suo nemico, perché sapeva che un processo negli USA gli
avrebbe reso la vita molto difficile e di sicuro sarebbe marcito in prigione; in
Colombia, invece, col denaro o con le intimidazioni, avrebbe sicuramente avuto
vita facile. Agli inizi degli anni Ottanta l’egemonia del Patròn nel narcotraffico
era ormai innegabile, ma il rischio di essere estradato gli toglieva il sonno la
notte e l’unica soluzione, secondo lui, era entrare in politica e sistemare la
faccenda una volta per tutte. Dopo aver rivalutato a proprie spese alcune zone di
Medellìn, nel ’82 riuscì a essere eletto deputato-supplente, godendo così
dell’immunità parlamentare che però, visti i precedenti arresti, un anno dopo gli
venne revocata dalla Camera dei rappresentanti. Avere alla Camera un deputato
che allo stesso tempo fosse un narcotrafficante e assassino era una cosa
inammissibile, così nel ’84 Pablo Escobar fu espulso e, su richiesta del ministro
dell’Interno Lara Bonilla, poi gli fu smantellato anche uno dei suoi più grossi
laboratori. El capo dei capos, ovviamente, in seguito fece assassinare il ministro
e poi si rifugiò con la famiglia a Panama, vista la taglia che pendeva sulla sua
testa. Intanto, durante l’assenza, a Escobar fu sequestrato il padre, ma grazie
alla sua rete di spie e sicari riuscì a risolvere il problema con relativa facilità e
fece trucidare tutti i sequestratori del cartello rivale. Scatenato come non mai
contro chiunque gli si mettesse contro, nel 1985 Escobar finanziò i guerriglieri
dell’M-19 che assaltarono il Palazzo di giustizia di Bogotà, i quali, tra le tante
malefatte, distrussero tutti gli incartamenti riguardanti Pablo. Da quel momento
sarà guerra aperta tra Escobar e lo Stato; verranno assassinati giudici, politici,
Ufficiali e giornalisti, addirittura el Patròn comincerà a offrire ricompense a
chiunque uccida i poliziotti.
Diventò un’espressione comune dire «Escobar ha messo la Colombia in ginocchio».
Espressione ambivalente, pronunciata cioè con un accento di soddisfazione dai suoi sostenitori
e con profonda costernazione dalla maggioranza dei cittadini.
Ecco chi fu quindi el capo de capos, un uomo divenuto talmente ricco che si
diceva spendesse 2500 dollari al mese solo per l’acquisto delle fascette
elastiche per tenere le mazzette di banconote, e talmente potente che il Governo
fu costretto a scendere a patti, eliminando l’eventualità di estradizione purché
Escobar si consegnasse alle autorità. Lui accettò, ma alle sue condizioni: a sue

spese si fece costruire un carcere “a cinque stelle”, con piscina, campo da calcio
e personale scelto da lui! Addirittura, in seguito, dietro compenso pure
Maradona andò a giocare una partita lì! Le istituzioni, rendendosi conto che più
che una reclusione quella era diventata una vacanza, quando tentarono un
trasferimento, Escobar prese in ostaggio gli agenti che erano andati a prelevarlo
e uscì dalla “porta sul retro”. Fu istituito un corpo speciale di paramilitari,
finanziato anche dagli americani, col compito di prendere Escobar vivo o,
meglio, morto che, dopo circa un anno di latitanza e mattanza, finalmente riuscì
nella missione.
Nella sua vita, nonostante centinaia di omicidi commissionati, come
abbiamo già detto Escobar fu anche un benefattore e in diverse zone della
Colombia ancora oggi qualcuno lo ricorda come un uomo dalla parte dei poveri,
una sorta di Robin Hood che, anche se con i soldi guadagnati dal narcotraffico,
fece costruire scuole, ospedali e campi da calcio, ma quello che Domenico
Vecchioni ci racconta nel suo libro va ben oltre alle solite notizie, per esempio
nessuno riflette su ciò che ha dovuto passare la famiglia del Patròn, soprattutto
la moglie.
Pablo Escobar e Maria Victoria Eugenia Henao Vallejo, rispettivamente
Mister e Tata nell’intimità, si conobbero quando lei aveva appena tredici anni,
lui ne aveva venticinque ed era già entrato a far parte del mondo criminale. La
famiglia di lei provò a opporsi al fidanzamento, ma Pablo rapì la ragazzina,
anche se a lei quella sorta di luna di miele clandestina inizialmente non
dispiacque, e i poveri genitori alla fine cedettero.

“La giovanissima moglie scoprì ben presto che il suo Mister non sarebbe stato un marito
fedele, come non era stato un fidanzato leale… Lui stabilì subito una netta distinzione tra i ruoli
familiare, professionale e sessuale dei due coniugi. Da una parte cioè c’era la Tata, programmata
per essere la moglie fedele, affettuosa e comprensiva, la premurosa madre dei suoi figli, dedita
esclusivamente alle questioni familiari; dall’altra c’era lui, con i suoi loschi affari, le sue assenze
notturne e le sue donne… Un giorno Pablo le disse che avrebbe preferito la morte al divorzio.
La morte di chi? Non certo la propria! Il messaggio sembrava chiaro.”
Quindi possiamo dire che la famiglia di Escobar ha vissuto sì nella ricchezza,
ma a quale prezzo? Negli anni Ottanta le fughe, per timore di essere uccisi dai
rivali del cartello di Cali, cominciarono a essere continue; le scappatelle di
Pablo erano all’ordine del giorno in qualsiasi posto si trovasse e nessuno poteva
opporsi, nemmeno le sue amanti, pena la morte. Anche i due figli, pur se

riempiti di regali e attenzioni, quando il padre era presente, non vissero tanto
felicemente. Neanche dopo la morte del capo del cartello di Medellìn la
famiglia se la passò bene, anzi…
Gran parte del patrimonio di famiglia fu sequestrato dallo Stato in quanto
beni acquisti illegalmente, mentre il restante finì nelle mani del cartello di Cali che
pretendeva a ogni costo, pena pesanti rappresaglie, il pagamento dei “danni di
guerra” subiti, per un ammontare totale di 120 milioni di dollari.
In conclusione mi sento di dire che questo libro mi è davvero piaciuto,
non solo per tutte le notizie riportate, anche perché mi è sembrato di leggere un
romanzo più che una biografia. Complimenti all’autore.

Ivan Collura