Soliloquio di un folle – di Egidio Capodiferro

Soliloquio di un folle

di Egidio Capodiferro

Circorivolta Edizioni

Il Signor Ermenegildo Sette, ricoverato in una clinica per malati mentali, trascorre molte ore del giorno a parlare da solo. Entro i limiti che gli sono assegnati dall’uomo, dalle pastiglie e dal destino, racconta in una stanza isolata di cose accadutegli molto tempo prima nella sua vita cosiddetta “normale”, quando ancora era in pieno possesso delle sue facoltà.

Recensione

Ermenegildo Sette, di provenienza meridionale e indole timida, proteso nel futuro e

sempre in attesa di qualcosa che mai arriva ed è sempre in agguato: la morte.

In queste parole, con cui si apre il “Soliloquio di un folle”, sono racchiusi i sentimenti

che pervadono il protagonista nel raccontare le proprie esperienze attraverso i ricordi,

dolci e amari, di una gioventù che non lo ha mai condotto a una maturità completa.

Del tutto insoddisfatto del proprio lavoro, trova in Clementina il primo vero amore,

ma lei, succube di una madre capace di rovinare la vita di chi le sta attorno e che mal

sopporta che la figlia si leghi a un uomo non di sua scelta, rinuncia al suo principe

azzurro, finendo in clausura.

Vivendo in un modo tutto suo, Ermenegildo si preoccupa poco del destino della ben

amata e la sostituisce presto con Valentina che, avendo avuto il torto di proporgli di

convogliare a nozze, subisce l’onta di essere scaricata con un solo “Addio, ti lascio”.

Passa il tempo, ed ecco Linda. Un colpo di fulmine che lega entrambi in modo

viscerale, ma presto anche Linda svanirà nel nulla per seguire l’uomo che

frequentava in segreto. Tradito, il protagonista si rifugia nella solitudine che per

lungo tempo lo aveva già afflitto in passato.

Da un amore all’altro, senza mai sentirsi appagato e incapace di farsi amare sino in

fondo, si dedica alla frequentazione di due signore anziane e degli zii Mario e

Serafina, che finiscono per monopolizzare le sue giornate risultando, però, preziosi

nel suo tentativo di dare una svolta alla propria vita.

Grazie alla vicina sessantenne Elena, alla quale si affeziona e che finisce per

frequentare assiduamente, incontra Sofia, se ne innamora, ma decide di lasciarla

quando, a sua insaputa, lei sparge la voce che si sarebbero sposati.

La stranezza dei nomignoli con cui ama chiamare i personaggi che incontra ricalca in

qualche modo il suo modo di essere affettuoso, ma sono poco edificanti e, infatti, ne

fa un uso esclusivamente personale. Così, la signora Rosa, madre del suo grande

amore Clementina, diventa Teiera perché bassa, grassa e con andatura da formica;

l’anziana signora che conosce al cimitero e di cui diventerà amico prende il nome

Stambecca per via del proprio aspetto, Lavanda si trasforma in Petite, e persino colei

che incontra nell’ospedale dove è ricoverato il cugino e che finirà per amare e

sposare, perde il nome Fernanda per diventare Vampira.

L’autoironia dell’autore sulle proprie disgressioni e trasgressioni, sullo stile con il

quale racconta le proprie esperienze, smorza qualsiasi tentativo di critica anche al

lettore più audace.

Scritto con uno stile volutamente scarno, a tratti dissacrante, il racconto si sviluppa in

modo brioso e scanzonato, tanto da non far rimpiangere al lettore la raffinatezza

ricercata di altri autori.

Il finale, inatteso, rivela il vero motivo delle stranezze del protagonista.

Alfredo