Tempo di uccidere – Ennio Flaiano (Bur)

Ennio Flaiano,
Tempo di uccidere,
Bur 2000

A che serve frequentare un gruppo di lettura? Per fare in modo che i libri ci raggiungano. Anche per la seconda volta.

Se il gdl di Pescara “Sulla traccia di Angela”, nato in seno alla biblioteca regionale “Di Giampaolo”, non avesse deciso di leggere per gennaio l’unico romanzo dell’abruzzese Ennio Flaiano, non so se lo avrei ripreso tanto presto. Ritenevo la prima lettura, di una decina di anni fa, ancora abbastanza recente e vivida nella memoria.

Mi sbagliavo.

La trama

“Tempo di uccidere” è ambientato durante la guerra dell’Etiopia del 1935/36, un’esperienza che l’autore ha vissuto veramente.

La narrazione è condotta in prima persona. Il protagonista, di cui non conosciamo mai il nome, si ritrova a vagare per l’Eritrea perché vuole farsi cavare un dente che gli fa male. In questo modo conosce una ragazza indigena e si ritrova a esserne l’assassino. Questo atto lo perseguiterà per tutto il romanzo, anche perché cresce un’infezione che lo condiziona enormemente.

Punti di forza

“Tempo di uccidere” è stato il primo premiato nella storia dello Strega, nel 1947. Qualcuno dice che Ennio Flaiano sia stato spinto a scriverlo proprio per poter essere insignito di questo riconoscimento.

Più noto per le sceneggiature cinematografiche e i suoi aforismi paradossali e taglienti, Ennio Flaiano mette da parte la gigioneria e ci racconta un’Africa maestosa e lenta, un “impero mancato”, in cui i rapporti tra indigeni e “signori” sono marcati dalla difficoltà di comunicare. Aleggia su tutto la differente concezione del tempo, così pressante per l’uomo occidentale “pratico” che non lo ha mai e così vasto e senza scampo quello africano.

“Ella non dava all’esistenza il valore che le davo io, per lei tutto si sarebbe risolto nell’obbedirmi, sempre, senza chiedersi nulla. Qualcosa di più di un albero e qualcosa di meno di una donna”.

Questo romanzo mi incontra in una fase in cui sono particolarmente sensibile alle ambientazioni africane e perciò l’ho letto come se fosse la prima volta. Quello che mi ha colpito di più è il precipitare del protagonista nell’ossessione: prima, del suo errore, poi in una serie di errori in cui incorre inarrestabile, quasi per inerzia. L’Africa con la sua dispersione e la sua inafferrabilità, con i suoi indigeni muti e dagli sguardi fissi diventa lo scenario perfetto per le solitudini e le convinzioni errate.

“Ma sì, l’Africa è lo sgabuzzino delle porcherie, ci si va a sgranchirsi la coscienza”

“Tempo di uccidere” mi ha fatto pensare a un altro viaggio, raccontato altrove più di cinquant’anni prima: quello del capitano Charles Marlow lungo il Congo in “Cuore di tenebra” (“Heart of Darkness”, Joseph Conrad, 1899). In entrambi i casi abbiamo l’Africa: in entrambi i casi, l’Africa diventa il luogo che spinge l’uomo a entrare in contatto con i suoi lati oscuri e con la sua capacità di dare la vita e la morte.

“Se uccidessi quest’uomo”, pensai, “seppellirei anche la parte peggiore di me stesso”

L’edizione di “Tempo di uccidere” del 2000 è arricchita da una serie di appunti (“Aethiopia. Appunti per una canzonetta”), tra cui riconosciamo anche dei temi e scene proposti nel romanzo.

Cristina Mosca

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