BT Fazi – Le violette di marzo

Buongiorno a tutti!

Siamo di nuovo alle prese con un blogtour.

Spetta a noi l’onore della prima tappa: presentazione ed estratto.

Il libro di cui vi parliamo s’intitola “Le violette di marzo” ed è stato scritto nel 1989 dal berlinese Philip Kerr.

Fazi ce lo ripropone nella collana darkside, in uscita dal 30 gennaio:

Il ritorno in libreria di un grande classico del poliziesco, la trilogia berlinese di Philip Kerr: l’opera più
famosa dell’erede di Raymond Chandler. Con la trilogia sulla Berlino nazista di Philip Kerr prosegue il
fortunato filone del poliziesco di ambientazione storica sulla scia di Chandler, Hammett, Malet,
Simenon. Dopo Jules Maigret, Nestor Burma, Philip Marlowe e Sam Spade, autori-mito per i lettori di
noir, è il momento di riscoprire Bernie Gunther, un detective privato antinazista, vero berlinese,
beffardo e donnaiolo, che si trova ad affrontare quotidianamente il male assoluto.

Questo è il primo di una trilogia, a breve verranno ripubblicati anche i successivi due capitoli: Il crimine pallido e Un requiem tedesco.

Di seguito un estratto che, a nostro parere, ben rappresenta l’atmosfera del tempo e del libro.

La descrizione dei patimenti subiti dagli ebrei, ancor prima della loro deportazione nei campi di sterminio, fornisce un quadro dell’adesione popolare all’ideale nazista:

Le gioiellerie sono uno dei pochi posti di Berlino dove la gente fa la fila per vendere piuttosto che per comprare. La gioielleria antiquaria di Peter Neumaier non faceva eccezione. Quando ci arrivai la coda non arrivava sul marciapiede ma poco ci mancava; ed era composta di gente più vecchia e più triste di quella che avevo visto in simili occasioni. La provenienza sociale di quelle persone era di tutti i tipi, ma per lo più avevano due cose in comune: il fatto di essere ebrei e – corollario inevitabile – senza lavoro, motivo per cui andavano innanzitutto a vendersi i propri oggetti di valore. All’estremità della coda, dietro un lungo banco di vetro, c’erano due commessi ben vestiti e dal volto di pietra. Seguivano un metodo di valutazione ben preciso, che consisteva nel dire al potenziale venditore che la merce aveva scarso valore e che avrebbe reso poco sul libero mercato.

«Vediamo di continuo roba come questa» diceva uno dei due increspando le labbra e scuotendo il capo alla vista delle collane di perle e delle spille posate sul banco. «Vede, non possiamo stabilire il prezzo in base al valore sentimentale. Sono certo che capirà». Era un tipo giovane, doveva[…]

«Vede, non possiamo stabilire il prezzo in base al valore sentimentale. Sono certo che capirà». Era un tipo giovane, doveva avere all’incirca la metà degli anni della vecchia ciabatta che gli stava di fronte, e anche piuttosto attraente, nonostante avesse bisogno del barbiere. L’indifferenza del suo collega era meno cordiale: respirò così rumorosamente che il naso prese un’espressione beffarda, sollevò appena le spalle tanto larghe da appenderci un abito e grugnì poco calorosamente. In silenzio contò con una mano ossuta da taccagno cinque banconote da cento marchi da un rotolo che doveva valere trenta volte di più. Il vecchio dal quale stava comperando era indeciso se accettare un’offerta che doveva essere irrisoria, e con mano tremante indicò il braccialetto steso sul pezzo di stoffa in cui l’aveva avvolto.

«Ma guardi bene», disse il vecchio, «ne avete uno esattamente uguale in vetrina che vendete a tre volte quello che mi offre per questo».

Attaccapanni contrasse le labbra. «Fritz», disse, «da quanto tempo abbiamo in vetrina il braccialetto di zaffiri?». Si tenevano bordone con grande efficienza, devo proprio ammetterlo.

«Devono essere sei mesi», rispose l’altro. «Non comprarne un altro, non è un istituto di beneficenza, questo». Probabilmente lo ripeteva parecchie volte al giorno. Attaccapanni ammiccò lentamente, con noia.

«Ha capito cosa voglio dire? Senta, vada da un’altra parte se pensa di ricavarne di più». Ma la vista delle banconote era troppo per il vecchio, che si arrese.

Rinchiuso a Dachau, il protagonista prova sulla propria pelle la crudeltà delle guardie dei campi e assiste impotente alla sorte, ben peggiore della sua, che veniva riservata a ebrei, omosessuali e altri ritenuti indegni di vivere:

“Muovetevi, maledetti bastardi», sbraitò una guardia e a forza di calci, spintoni e pugni ci condussero in branco al primo piano, facendoci marciare in fila per cinque davanti a una pesante porta di legno. Un intero serraglio di guardie ci rivolse il loro sadico interesse.

«Vedete quella dannata porta?», sbraitò il Rottenführer, con un’espressione maligna che gli contorceva i lineamenti, come un pescecane che sta divorando la sua preda. «Lì dentro vi distruggiamo come uomini fino alla fine dei vostri giorni. Vi mettiamo le palle in una morsa, capite? Vi fa smettere di sentire nostalgia di casa. Come fate, poi, a voler tornare dalle vostre mogli e le vostre fidanzate se non vi è rimasto più niente da riportargli?». Scoppiò in una sonora risata, imitato dal resto del serraglio; poi alcuni di loro trascinarono dentro la stanza il primo che gli capitò, che scalciava e gridava, e richiusero la porta alle loro spalle. Mi accorsi che i prigionieri tremavano dalla paura, ma immaginai che il caporale lo ritenesse uno scherzo divertente per lui, e quando alla fine arrivò il mio turno assunsi volutamente un’aria di grande calma mentre mi facevano varcare la soglia. Una volta dentro mi chiesero nome[…]”

Passi di: Philip Kerr. “Violette di marzo”. iBooks.

“Come si fa a descrivere l’indescrivibile? Come si fa a parlare di qualcosa che vi ha reso muti dall’orrore? Molti più eloquenti di me non sono riusciti a trovare le parole. È un silenzio nato dalla vergogna, perché anche gli innocenti sono colpevoli. Privato di tutti i diritti umani, l’uomo torna allo stato animale. Chi ha fame ruba a chi ha fame, pensando unicamente alla propria sopravvivenza. L’obiettivo di Dachau era far lavorare tanto da distruggere lo spirito, con la morte come effetto secondario. La sopravvivenza si otteneva indirettamente, tramite le sofferenze altrui: per un po’ si era salvi quando era un altro a essere picchiato o linciato; per qualche giorno si poteva mangiare la razione di quello nella cuccetta accanto, dopo che era morto nel sonno.”

“Per rimanere vivi è innanzitutto necessario morire un po’.

Vi auguriamo una buona lettura con gli altri blog che partecipano a questo tour