“La Cagna” di Pilar Quintana per La Tartaruga

Questo breve romanzo di appena un centinaio di pagine descrive una storia profondissima ed essenziale. racconta una maternità. Un surrogato di maternità, una maternità diversa, infelice, mancata.

La protagonista si chiama Damaris e vive in Colombia in un villaggio rurale con un marito spesso fuori per delle battute di pesca e che quando è a casa è distante da lei. Non si capiscono più e si parlano appena da quando Damaris ha realizzato che non possono avere figli.

Ma se non può occuparsi di un figlio, vuole dedicare l’amore che ha dentro a un altro essere e l’occasione prefetta arriva con la nascita di Chirli, una cagnolina vivace e disobbediente che le riempirà, finalmente, la vita.

Damaris umanizza la cagnolina, si relaziona come una madre farebbe con un figlio, le dà persino il nome che avrebbe dato alla sua bambina, se ne avesse potuta avere una, la accudisce e la accoglie come soltanto una madre farebbe. Perchè il non aver avuto figli non rende Damaris meno materna anzi il desiderio di esserlo la appaga soltanto quando può confluire tutte le sue attenzioni sulla cagnolina. Ma come si comporta una madre davanti a un figlio che non incarna il suo ideale? Un cane, a differenza di un bambino, anche crescendo, seppur legato alla padrona, agisce d’istinto, vuole sopravvivere e avere figli a sua volta. Così Damaris scopre che quell’amore a senso unico non è ciò che si aspettava, di certo non ciò che aveva desiderato. Ma si può rifiutare un figlio?

Questa storia fa dell’essenziale la sua potenza. La scrittura diretta, scarnificata, ridotta degli orpelli e di qualunque sovrastruttura rimette al centro l’umano in tutte le sue contraddizioni rendendolo universale. Potrebbe essere successo ovunque, potrebbe forse accadere a chiunque. Il desiderio di Damaris di amare si scontra con il desiderio di essere amata di Chirli. Lei ha soltanto bisogno di cure e attenzioni, ma quando la simbiosi si interrompe, quando la cagnolina fugge lontano dalla sua padrona, ecco che l’incantesimo si spezza e la fiaba si ritrasforma in realtà. La stessa realtà da cui Damaris ha provato a evadere e che ancora di più la imprigiona. Adesso non ha più il desiderio in cui rifugiarsi.

“La zia Gilma si sventolava con il ventaglio sulla sdraio del balcone come una regina, Rogelio se ne stava stravaccato su un’altra sdraio accanto alla piscina, Luzmila e suo marito, seduti sul bordo, bevevano al collo da una bottiglia di aguardiente, le bambine facevano piroette nell’acqua e Damaris, che era appena uscita dall’acqua, si lasciava dietro una scia di gocce lungo il vialetto lastricato, con il suo culo gigantesco nei pantaloncini e la canottierina stinta che usava come costume da bagno o per lavorare. Damaris pensava che nessuno avrebbe mai potuto prenderli per i proprietari del posto. Erano un gruppo di neri poveri e malvestiti che usavano le cose dei ricchi. Morti di fame che si spacciavano per signori, ecco cosa avrebbe pensato la gente, e Damaris moriva di vergogna perché per lei apparire come una profittatrice era una cosa tremenda e deplorevole quanto l’incesto o il delitto. Si sedette sul pavimento con le gambe distese e si appoggiò al muretto del gazebo. La cagna si sdraiò accanto, mise la testa sulla sua coscia e lei cominciò ad accarezzarla. Luzmila le guardò scuotendo la testa, e poi offrì da bere a Rogelio. “Ti ha già sbattuto fuori dal letto per farci stare la cagna?” gli chiese. “Perché a pranzo la porzione migliore l’ha servita a quella.” Luzmila esagerava. Damaris aveva in effetti servito una porzione di sancocho alla cagna, ma era soltanto la pelle della gallina e un pezzettino di carne. “Non ancora,” rispose Rogelio, “però non lo so perché spreca tanto tempo con quella bestiola che si è persa nella boscaglia e ha provato la vita selvatica. Glielo dico sempre che continuerà a scappare.”