Le intermittenze della morte – di José Saramago

Le intermittenze della morte
José Saramago

Le intermittenze della morte

José Saramago

Feltrinelli

Recensione

Quando José Saramago scrisse “Le intermittenze della morte”, nel 2005 a Lisbona, era già José Saramago. Nel 1998 aveva vinto il Premio Nobel per la Letteratura, pochi anni prima aveva dato alla luce i meravigliosi “Il Vangelo secondo Gesù Cristo” e “Cecità”. Aveva già ammaliato il mondo con le parabole che, come motiva la giuria del Nobel, “sostenute dall’immaginazione, dalla compassione e dall’ironia” permettono “continuamente di conoscere realtà difficili da interpretare”. In “Intermittenze della morte”, che precede di cinque anni la sua morte, si toglie qualche sassolino dalla scarpa. 

Cosa succederebbe se la Morte smettesse di lavorare? O meglio: cosa succederebbe se in un Paese, e in uno soltanto, di punto in bianco si smettesse di morire? Con la sua fantasia fervida e cinica, aiutandosi con uno stile ironico e abbandonandosi al gusto dell’assurdo, José Saramago prova a immaginare non solo le reazioni delle persone, ma soprattutto quelle dei poteri forti. Quello della non-morte, infatti, è subito un problema a vari livelli, da quello occupazionale del settore delle pompe funebri, a quello logistico della “maphia” a, chiaramente, quello spirituale della Chiesa, che rischia di trovarsi intaccata alle fondamenta perché se non c’è morte non può esserci resurrezione. 

«(…) capireste la differenza reale che c’è fra il relativo e l’assoluto, fra il pieno e il vuoto, fra l’essere ancora e il non essere più, e quando parlo di differenza reale mi riferisco a qualcosa che le parole non potranno mai esprimere, (…) perché le parole, se non lo sa, si muovono molto, cambiano da un giorno all’altro, sono instabili come le ombre, ombre di se stesse, che tanto ci sono quanto non ci sono più, bolle di sapone, conchiglie di cui a stento si sente il respiro, tronchi tagliati»

Il pensiero più gentile dell’autore va agli infelici che si trovano in situazioni sospese e non riescono a morire. 

«(…) allora potrà domandare Morte dov’è la tua vittoria, sapendo comunque che non riceverà risposta, perché la morte non risponde mai, e non perché non lo voglia, ma solo perché non sa cosa c’è da dire dinanzi al più grande dei dolori umani».

Accade poi, tra vari scompigli, che la Morte decide di tornare a lavorare, e lo fa ribaltando la situazione: per sette mesi nessuno muore mai, nel Paese, dopodiché si inizia invece a ricevere il preavviso di una settimana, tramite una lettera viola. È qui che inizia la seconda parte del libro, che a mio parere si scolla un po’. Il focus della narrazione passa da quella comunità destabilizzata dall’assenza della Morte alla Morte stessa. Entriamo così quasi in un racconto separato, quasi un valzer, perché restiamo soli con lei che gira intorno alla sua ossessione verso un ingranaggio che si inceppa: un uomo a cui, inspiegabilmente, la lettera viola non è stata recapitata e che perciò non è morto. 

A parte questa convivenza di due brevi racconti perfettamente autosufficienti, José Saramago è sempre il buon vecchio José Saramago, che superati ormai gli ottant’anni armeggia, amoreggia e giocherella con il pensiero della Signora che prima o poi lo verrà a prendere. Il risultato è sorprendentemente leggero e gradevole alla lettura, se si accetta il patto narrativo dei voli di fantasia. 

Cristina