Le notti sull’isola – di Robert Louis Stevenson

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Le notti sull’isola –  di Robert Louis Stevenson

Bordeaux Edizioni

a cura di Dario Pontuale

Prefazione di Ernesto Ferrero

 

Questo libro si compone di tre racconti, ma prima di parlarvene, vorrei spendere due parole per la bellissima e interessante introduzione di Dario Pontuale.

Sarà perché io Stevenson l’ho letto da bambina, avevo forse 12 anni, e non ricordo niente. Sarà che a scuola, chissà perché?, non l’abbiamo mai né studiato né letto. Sarà che in sostanza non ne sapevo niente di questo autore, ma la prefazione me lo ha fatto amare ancora prima di leggerlo.

Pontuale è molto bravo nel descrivere il suo pensiero e le sue opere, nonché ciò che altri scrittori e critici hanno detto di lui e della sua scrittura.

“La scelta della parola esatta, insostituibile, il senso del colore, del suono, della sfumatura essenziale, del particolare esattamente osservato e insieme l’avversione a ogni intemperanza romantica o sentimentale, il gusto di una sobrietà e di un controllo quasi stoici. […] Tutti dobbiamo qualcosa a quest’esempio di un mestiere esercitato con la stoica ingenuità di un ragazzo che crede naturalmente nella vita e nella fantasia.”

“Qualunque grande impresa esige progettazioni ragionate, studiate a tavolino, il talento può non bastare e di ciò Stevenson era consapevole”

Ci fa capire come i racconti siano da leggere nel contesto storico nel quale Stevenson li ha scritti, in particolare il primo, che era considerato sconveniente, perché ritrae i bianchi colonialisti come approfittatori e non spende belle parole per i missionari. A duecento anni di distanza i racconti ci sembrano addirittura “retrogradi” e classisti, ma per l’epoca erano senz’altro “progressisti” e quindi mal visti. Una donna, per di più indigena, sullo stesso piano di un uomo? Non sia mai!

Ora veniamo ai tre racconti:

La spiaggia di Falesà

Wiltshire è appena sbarcato sull’isola di Falesà e fa la conoscenza di Case, un altro signore inglese che da qualche anno si è installato su quell’isola per affari, commerciando con gli indigeni e vendendo i loro prodotti.

Case scorta il nuovo arrivato, lo introduce ai suoi amici e agli indigeni, e riesce a combinarlgi un matrimonio con una bella ragazza dell’isola, Uma. Nel giro di poco Wiltshire si accorge che Case non è affatto quello che sembra e che il matrimonio combinato, in realtà, oltre a essere fasullo e privo di valore, gli ha procurato danno. Cerca allora di rovesciare le cose e avere la meglio sul rivale.

Stevenson ci racconta la storia come un uomo del suo tempo, mettendo in mostra l’arroganza dei colonialisti e la loro supposta superiorità.

“Perché un negro conta come un uomo bianco lì e così un cinese! Idea curiosa, ma comune nelle isole.”

“Sarebbe assai strano se noi, che veniamo da così lontano, non potessimo fare ciò che più ci piace.”

Ciò che mi ha colpito del racconto è la naturalezza con cui elementi superstiziosi si inseriscono nella narrazione e nelle attività quotidiano, influenzando le scelte dei protagonisti. In fondo non sono diverse da molte credenze nostre attuali, con la solo differenza che alle loro guardiamo con superbia e alterigia. Eppure Stevenson è bravo a farci vedere come sia facile crederci, perché la suggestione agisce in maniera subdola e sottile, e la nostra fantasia tende a fare il resto. Niente di più facile, quindi, credere agli spiriti perché un marchingegno sconosciuto produce un suono mai sentito prima.

Il diavolo nella bottiglia

Un giovane marinaio compra una bottiglia con dentro un demone che realizza ogni desiderio. Tra le regole da seguire c’è che bisogna rivendere la bottiglia a un prezzo inferiore a quanto la si è pagata, altrimenti torna indietro, e che se non la si riesce a vendere prima di morire, si passerà l’eternità tra le fiamme dell’inferno. Il giovane realizza i propri desideri e la vende, ma poi la deve ricomprare.

Anche questa storia mischia realtà e fantasia, religione e superstizione. E parla anche di cupidigia, a rischio della salvezza della propria anima. Ci sono due innamorati, così innamorati e devoti che accettano di finire all’inferno per salvare l’amato, e poi c’è chi non si fa problemi ad andare all’inferno. La maggior parte dei protagonisti, del resto, non si fa problemi a condannare all’inferno qualcun altro venendogli la bottiglia.

L’isola delle voci

C’è un mago. C’è un giovane avido. Ci sono dei cannibali. E degli incantesimi.

Alcuni aspetti di questo racconto che mi sono piaciuti particolarmente, ad esempio l’internazionalità della magia, il fatto che, a un certo punto, sull’isola ci siano stregoni provenienti da ogni nazione, ognuno a cercare la stessa cosa. Lo stregone non è buono e saggio come ce si aspetterebbe, bensì vendicativo. E crudele.

Tutti e tre i racconti sono un perfetto equilibrio tra realtà, magia e superstizione. Stevenson ci racconta un mondo che è il suo, fatto di colonialismo, di isole hawaiane, di credenze e leggende. Dove gli uomini bianchi sono superiori a tutti e dove le donne, benché inferiori, hanno sempre un ruolo fondamentale e senza di loro gli uomini sarebbero perduti. In tutti e tre i racconti sono le mogli che di fatto salvano i mariti.

Lo stile è di altri tempi, se qualcuno decidesse di riscriverli, molto probabilmente accentuerebbe il lato romantico, e non si accontenterebbe di fidanzamenti di uno o due giorni. Ma proprio qui sta il fascino di Stevenson: uno stile asciutto, senza ghirigori, con ciò che è necessario, nulla di più. Eppure vediamo chiaramente i luoghi, i personaggi, l’ambientazione. Siamo con lui sulle isole, crediamo alla magia, non mettiamo in dubbio le sue parole. Viaggiamo indietro di due secoli e assaporiamo una cultura a noi lontana.

Come scrive Ferrero nella Prefazione:

I classici non sono dei libri senza tempo. Sono libri del loro tempo che riescono a parlare ad ogni tempo.

Daniela