“Caffè Voltaire” di Laura Campiglio (Mondadori)

“Caffè Voltaire di Laura Campiglio (Mondadori)

Il libro di Laura Campiglio attrae subito per la grafica leggera della copertina. Una ragazza, seduta al tavolino di un bar, gambe accavallate e ai piedi due scarpe diverse. Un anfibio e una décollète.

Questa è Anna: una trentacinquenne, eterna precaria dell’industria culturale che intrattiene otto collaborazioni per mantenersi. Quando il quotidiano per cui lavora la licenzia a causa di un articolo che non ha consegnato in tempo per colpa di un imprevisto, è costretta a rivedere tutta la sua vita e a scegliere quale strada intraprendere.

Si rende conto così che, sebbene sia ambiziosa e già da bambina, quando scopre di non poter diventare papa, ripiega sulla presidenza della repubblica, le collaborazioni pagate a cottimo la demotivano. Avviene sempre, nel passaggio da studente a lavoratore solitamente, di dover guardare dall’esterno la propria vita e fare un bilancio. Ecco, Anna se si fermasse a pensare che alla sua età Carlo Magno aveva conquistato tutto il mondo conosciuto, dovrebbe mollare e fuggire! Invece si rimbocca le maniche e accetta di scrivere in incognito per due testate dall’opposto taglio politico. Si ritrova così a raccontare la stessa campagna elettorale da due punti di vista opposto.

Campiglio affronta temi profondi con ironia, racconta di una generazione che non conosce più la certezza del futuro. Mentre i giovani degli anni ’80 pensavano che il precariato fosse soltanto una fase, uno step, la cosiddetta gavetta, oggi quella stessa generazione si ritrova imprigionata in un precariato perenne.

Fondamentale il rapporto coi “vecchi”: il nonno di Anna la riporta sempre coi piedi per terra.

Le chiede, per esempio, se ha un lavoro che le garantisca un reddito. Anna non capisce, allora lui le spiega che un vero lavoro è quello che le permette di andare in banca a chiedere un mutuo per acquistare una casa.

E questo è uno dei grandi problemi di chi si affaccia oggi al mondo del lavoro.

Estratto:

Da bambina volevo fare il presidente della Repubblica, ma era una soluzione di ripiego. Mi avevano spiegato che no, il Papa proprio non si poteva, e così, sfumato il Vaticano, mi sarei accontentata del Quirinale.

Diventare adulti, in fondo, è stilare il bilancio tra velleità infantili e risultati ottenuti. Volevi fare la rockstar e fai la rockstar: bene. Volevi fare l’astronauta e fai, che so, l’assicuratore o l’impiegato al catasto: un po’ meno bene. In mezzo, infinite gradazioni di compromesso con l’idea di fallimento. Ora, se da piccola ambivi alla presidenza della Repubblica e da grande ti arrabatti tra collaborazioni e lavoretti precari, non è andata proprio alla grande, questo lo so. Solo che certi giorni brucia più di altri. Oggi, per esempio.

Si favoleggia ci sia stato un tempo in cui perdere il lavoro potesse rappresentare in qualche modo una notizia. Adesso è il contrario: perderlo è perfino banale, a fare scalpore se mai è la remota eventualità di trovarne uno. Soprattutto se hai la fortuna sfacciata di appartenere alla generazione perduta dei trenta-quaranta e di vivere in un Paese che quanto a disoccupazione giovanile è trionfalmente sul podio europeo, al terzo posto dopo Grecia e Spagna.

Sui numeri sono abbastanza ferrata, avendo da poco scritto un pezzo sui trentenni senza lavoro per il giornale che mi ha appena lasciata a casa: il 38 per cento dei giovani che cerca un impiego non lo trova, meno della metà dei laureati riesce ad avere un’occupazione entro l’anno e si calcola che quelli della mia generazione cambieranno almeno dodici lavori nel corso della loro vita.

Quanto all’ultimo dato, posso considerarmi a buon punto: non per essere autoreferenziale ma, modestia a parte, fino a oggi pomeriggio di collaborazioni a progetto potevo vantarne ben otto. Da stasera, sette. Non male per una a cui nessuna banca del globo terraqueo concederebbe mai un mutuo, rifletto infilandomi nel parcheggio a spina di pesce di un autogrill. Spengo il motore e mi metto comoda: sedile tirato indietro, autoradio accesa, sigarette a portata di mano. Qui sono e qui resto. A tempo indeterminato, come il contratto che non avrò mai.