Il Digiunatore di Enzo Fileno Carabba per Ponte alle Grazie

Quando avevo da poco iniziato a leggere questo romanzo è giunta la notizia della sua candidatura al Premio Strega. In genere è il tipo di notizia che non mi avvicina a una lettura, anzi mi rende più diffidente. Per fortuna ero già a buon punto con la lettura così il riconoscimento non mi ha potuto in alcun modo influenzare e questo è sempre un bene. Nello specifico si tratta di un romanzo godibile come pochi, che spinge alla riflessione sulla figura dell’artista che è tale anche quando nessuno lo guarda esibirsi. i molteplici piani di cui è composto si snodano scivolando fra le dita del lettore pagina dopo pagina che alla fine è convinto di aver vissuto un sogno insieme al protagonista, una fantasia euforica e caleidoscopica.

Il digiunatore racconta la storia affascinante di Giovanni Succi che, ironia della sorte, nasce in un luogo abitato da grandi mangiatori. Proprio per questo il primo capitolo si intitola “Oppa Oba”, perché da subito Giovanni mostra di non gradire tanta opulenza e rifiuta il cibo respingendolo con un “troppa roba”.

Ma ciò che veramente lo affascina e da cui viene subito attratto è il mondo del circo fatto di carovane e girovaghi a cui non vede l’ora di unirsi. Giovanni possiede in sé l’arte, è un performer, diremmo oggi, perché digiuna in pubblico e anche se nessuno lo guarda.

Tanti quadri che dipingono i suoi giorni con ritratti realistici e al tempo stesso metaforici, perchè Succi non si sforza di resistere alla fame, non sente la tentazione né il bisogno di cibarsi, ma la rinuncia di esso è per sua stessa natura il cibo di cui si sazia.

Come tutti i personaggi eclettici, Succi ha un temperamento esuberante, che non passa mai inosservato. viaggia molto, incontra personalità di spicco del periodo e ritenuto pazzo viene rinchiuso in manicomio.

Voltata l’ultima pagina si ha l’impressione di aver vissuto un pezzo di vita di una leggenda, in uno stile leggero e profondissimo al tempo stesso, come soltanto un grande narratore saprebbe raccontare.

In certi pomeriggi lunghi, le carovane uscivano dal Paradiso Terrestre e puntavano diritto verso il paese, cariche di pietre preziose, elisir e frutti sconosciuti. Approfittavano di circostanze cosmiche favorevoli, segnalate dalle fosforescenze del cielo, e abbandonavano il Giardino dell’Eden, un luogo che esiste ancora ma non è più abitato da persone normali. Erano carri traballanti, casette con le ruote di legno, strani veicoli che portavano scimmie e pappagalli, uomini forzuti, donne magiche. Guidati da una stella o da uno sciame meteorico, si dirigevano verso la nostra normalità. Un viaggio nebuloso e difficile. Raggiunta la pianura, i cavalli affondavano nel fango alluvionale lasciato dal Diluvio, venivano inghiottiti dai fossili sparsi da Dio. Alla fine arrivavano solo pochi carri, o un carro soltanto. A volte appariva un uomo solo, senza il carro, magari con una ruota di legno che lanciava in avanti per spianarsi il cammino. Poteva sembrare lacero e malridotto, ma era immortale.