“Il grano in erba” di Colette (Adelphi)

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“Il grano in erba” è un romanzo del 1923, scritto da una Colette ormai cinquantenne e pluridivorziata. È fra i primi che Simone Gabrielle può finalmente firmare con il suo cognome da nubile. Io l’ho letto nell’edizione Oscar Mondadori del 1964, che comprende anche “Il mio tirocinio”, ma oggi è disponibile in edizione Adelphi.

“Non immaginava che un piacere mal dato, mal ricevuto, è un’opera perfettibile”

Ne “Il grano in erba” è presente chiaramente uno dei temi principali della scrittrice francese: “raccontare le sofferenze causate dalla signoria dell’altro su un corpo troppo docile” (Grazia Livi, “Le lettere del mio nome”, Iacobelli 2014).

Cos’è “Il grano in erba”

Lui, lei, l’altra. Uno stereotipo? Forse. Ma cosa succede se lui e lei sono due adolescenti degli anni Venti, attenti ai primi fremiti del corpo, tesi ad annusarsi come due cagnolini, e l’altra è una signora vestita di bianco, adulta, sessualmente sapiente?

Che succede se la purezza di un amore adolescenziale incontra l’esperienza del corpo, se il desiderio porta alla perdita di innocenza, se l’amore ha il sapore di un furto?

Punti di forza

Colette colpisce per la liricità, la compassione, la malinconia. Ci sarebbero tanti modi di raccontare un ragazzo che diventa uomo, e Colette si sofferma su quello più nascosto: il lato psicologico.

“Ella accettò di cullarlo (…). Lo malediceva perché era così infelice e così coccolato”

Colette si è sempre affidata agli uomini che ha sposato: si è sempre impegnata a compiacerli. È diventata “scrittrice senza vocazione” facendo la ghost writer per il suo primo marito, il giornalista Henry Gautier-Villars (Willy). Ha proseguito firmandosi con il cognome del secondo, un altro giornalista, un altro Henry: il barone de Jouvenel. Quando non sono stati loro a mantenerla, è stato il suo proprio corpo: per sbarcare il lunario ha danzato, si è esibita, si è data. Colette è una donna costantemente deflorata.

“Philippe cerca invano, nella sua memoria, il libro in cui sta scritto che un giovane non si libera dell’infanzia e della castità con una sola caduta, ma che vacilla ancora, con oscillazioni profonde e quasi sismiche, per lunghi lunghi giorni…”

Ne “Il grano in erba” assistiamo alla lacerazione che si subisce di fronte a qualcosa che accade troppo presto. Phil (Philippe) diventa l’amante di una donna che conosce benissimo il proprio posto, sa che non sarà mai amata da lui, e forse appunto per questo non gli lascia la gratificazione di un’ultima notte di saluto. Phil è succube di un miscuglio di sentimenti, di cui Vinca (Pervinca) si fa ricettrice con le sue antenne da adolescente innamorata.

Però, però, però…

Il commento che mi è venuto alla fine è stato che “per fortuna è breve”. La penna di Colette in questo libro è esigente e vaga; è ricercata e a volte oscura. Certe volte sembra perdersi nel suo carattere evocativo, e ci lascia per qualche pagina con il dubbio di aver capito bene: l’atto è stato consumato oppure no? Questa posa lasciva segue l’amore o lo precede?

“È tipico degli eroi, degli attori e dei fanciulli questo sentirsi a proprio agio su un piano elevato. Questi fanciulli sperarono follemente che dall’amore potesse nascere una nobile pena”

Al netto di questi dubbi è stata una bella conoscenza: volevo leggere questa autrice da almeno un paio di anni, attirata dalla complessità della sua vita, che ho letto anche ne “Le incantatrici” di Daniela Musini.

Cristina Mosca