“Memorie dal sottosuolo” – Fëdor Dostoevskij

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“Memorie dal sottosuolo”, di Fëdor Dostoevskij, ed. Mondolibri 2013

Era un Dostoevskij appena quarantenne quello che nel 1864 scrisse “Memorie dal sottosuolo”. Era il suo esordio narrativo. Subito si presentò come un autore molto diverso da quelli che avevano preso la strada segnata dal Naturalismo, e non fu bene accolto. Io ho recuperato la mia edizione Mondolibri del 2013 quando il gruppo La chiave di lettura l’ha scelto come condivisa di giugno.

“Io sono una persona malata… Sono una persona cattiva”

Questo è uno degli incipit più famosi della letteratura mondiale. Ci introduce alla natura provocatoria di “Memorie dal sottosuolo”: un romanzo scritto mentre l’autore assisteva la moglie malata di tisi.

È diviso in due parti: “Il sottosuolo” e “A proposito della neve bagnata”. Nella prima parte veniamo resi partecipi della meschinità e dell’autocompiacimento del protagonista (che rimane senza nome) seguendone il flusso dei pensieri. È un uomo tirchio, abbietto, anche con un po’ di manie di persecuzione. Le sue fissazioni sfiorano il tragicomico. Dopo il monologo fiume della prima parte, nella seconda abbiamo un po’ di azione e di dialoghi, in cui il protagonista si confronta con una prostituta.

Punti di forza

L’introspezione di Dostoevskij è cruda, inclemente. Nella prima parte sembra essere l’autore e non il personaggio a togliersi dei sassolini dalle scarpe, perché non risparmia commenti e frecciate sulla letteratura coeva. Senza essere esperti di cultura russa e senza le note ne capiremmo poco.

Questo antieroe è credibile e realistico, tanto che è un bell’antipatico dall’inizio alla fine.

“Vi giuro, signori, che l’esser troppo consapevoli è una malattia, un’autentica, assoluta malattia.”

Fa un po’ sorridere quando pianifica l’occasione di andare a sbattere contro una persona da cui si ritiene gravemente offeso, ma poi quando ci riesce l’altra persona non sembra neanche accorgersene… Per non parlare della “manovra degli sguardi severi” che intrattiene con il suo servo quando non lo vuole pagare puntuale per punirlo di qualcosa.

Uno scorcio di capacità empatica si apre nella seconda parte, quando l’io narrante, nonostante infierisca su una prostituta facendole riflettere su come il suo lavoro influisca sulla vita privata, sembra compatirla.

Però, però, però…

Il mondo appare diviso fra dostoevskijani e tolstojani, non so con quale spiegazione psicologica. Io credo ormai di potermi dichiarare tolstojana: scopro di trovarmi più a mio agio quando la riflessione si alterna all’azione, infatti mi è stato più facile seguire la seconda parte.

Per dargli la forma di un memoriale, Dostoevskij indugia nell’introspezione del personaggio e sul suo sguardo sul mondo, soprattutto nella prima parte. È un personaggio che sembra avere chiaro il cinismo degli uomini e anzi se ne fa portatore lui e ne è orgoglioso.

“Non potrebbe sbagliarsi, il raziocinio, nel valutare ciò che è vantaggioso e ciò che non lo è? Non potrebbe darsi che l’uomo non ami solamente il benessere? Che magari ami nella stessa misura anche la sofferenza? E la sofferenza medesima, non potrebbe magari essergli altrettanto vantaggiosa quanto il benessere?”

Al di là del mio gusto personale, l’autore rimane senz’altro un pioniere dell’esplorazione dell’io che caratterizzerà la narrativa del Novecento. Con il gruppo di lettura è stato osservato che quel sottosuolo che centocinquanta anni fa era sovversivo esibire come fa Dostoevskij, oggi è il nostro pane quotidiano. Chissà se aveva previsto anche questo?

Cristina Mosca