“Pastorale americana” – di Philip Roth (Einaudi)

“Pastorale americana” di Philip Roth, Einaudi 2018

“Pastorale americana” è il romanzo con cui Philip Roth, scomparso nel 2018, vinse il Premio Pulitzer nel 1997. Era sotto i riflettori già da più di trent’anni.

Se cerchiamo la parola “pastorale” sulla Treccani troviamo ampi riferimenti al mondo della pastorizia nelle vesti di aggettivo, e un riferimento musicale nelle vesti di sostantivo femminile. La pastorale è, in sostanza, un componimento in musica dedicato a un mondo idilliaco in cui sia possibile vivere in sintonia con la natura.

Nel romanzo questa sintonia è un’ambizione figlia dell’immigrazione; un’integrazione desiderata da chi, come la famiglia del protagonista, in un nuovo continente ha trovato accoglienza e la vuole conservare. Ma nel fenomeno dell’immigrazione pare esserci una fase senza scampo in cui in questa ambizione si innesta un meccanismo oscuro di rigetto:arriva una generazione che paradossalmente si sente talmente integrata da sentirsi in diritto di combattere la stessa società che l’ha accolta.

Pochi mesi fa leggevo John Fante: in “Aspetta primavera, Bandini” (1938) accade qualcosa di simile nel giro di una sola generazione. Il padre è l’immigrato che già si sente americano, americanissimo, e lo dichiara apertamente e con orgoglio: il figlio, che è nato in America, si sente ancora orribilmente italiano e disprezza il padre per la sua evidente italianità.

Punti di forza

In “Pastorale americana” si parla di una famiglia perfetta: lui è Levov, figlio di un guantaio immigrato ebreo; è campione di baseball, lo sport americano per eccellenza e sposa la cattolica Miss New Jersey. Insieme aprono un allevamento nell’entroterra. Quindi non è un ragazzo eccessivamente conformista: riesce a spezzare il circolo ebraico della sua famiglia, sceglie la sua strada ed è una strada d’amore.

“(…) Quaggiù troveremo un sacco di persone che non rivendicheranno la superiorità del protestantesimo come facevano i loro padri e le loro madri. Nessuno domina più nessuno. Ecco qual era lo scopo della guerra. I nostri genitori non sono in sintonia con le possibilità, con le realtà del mondo postbellico, dove la gente può vivere in armonia, persone di tutti i generi, fianco a fianco, indipendentemente dalle loro origini. Questa è una nuova generazione, e nessuno ha bisogno di risentimento, né loro né noi.”

In questo idillio scoppia una bomba, letteralmente. A soli sedici anni, la loro unica figlia si trova parte attiva di un attacco terroristico nel 1968 e sparisce dalla circolazione. La famiglia Levov si trova nella condizione di aver perso una figlia spiritualmente prima ancora che fisicamente. La domanda che ricorre più spesso è: come può essere stata nostra figlia? Dove abbiamo sbagliato?

Tutto quello che si muove intorno a queste domande senza risposta e a queste considerazioni rendono a mio parere “Pastorale americana” sì un fedele ritratto dell’America di quel periodo, ma soprattutto uno spudorato stiletto nella coscienza di tutti sempre.

“Era incomprensibile (…) come lui e Dawn avessero potuto essere all’origine di tutto. Come potevano, i loro innocui difetti, aver contribuito a produrre questo essere umano?”

Però, però, però…

La narrazione procede in prevalenza in terza persona da parte di un narratore esterno che conosce Seymour Levov appena, ma che ha sempre subito il suo fascino. Spesso si innestano dei passaggi in prima persona nella forma di discorso indiretto libero, ma a mio parere sono passaggi talmente fluidi da non costituire un problema nella lettura, anzi la arricchiscono. Questo stile, unito alla fitta presenza di digressioni, può essere un comprensibile ostacolo per alcuni, ma un ostacolo a cui, secondo me, ci si può abituare abbastanza presto perché ripaga con riflessioni profonde e crude, spiazzanti e universali.

“(…) La figlia che lo sbalza dalla tanto desiderata pastorale americana e lo proietta in tutto ciò che è la sua antitesi e il suo nemico, nel furore, nella violenza e nella disperazione della contropastorale: nell’innata rabbia cieca contro l’America”

Ho amato “Pastorale americana” perché l’ho letta con gli occhi di genitore. Sono rimasta incollata all’imperscrutabilità degli eventi che ti condizionano un figlio nonostante tu lo abbia sempre immaginato simile a te o perlomeno non troppo diverso. Il concetto di irrimediabilità entra in collisione con la self-confidence dell’uomo moderno e crea una frattura inguaribile anche nel lettore.

Cristina Mosca

Una risposta a ““Pastorale americana” – di Philip Roth (Einaudi)”

  1. Per me una lettura bellissima. Certi romanzi sono davvero delle riflessioni sentite e profonde ☺️☺️

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