Su questa pietra – di Sergio Ramazzotti (Mondadori)

Su questa pietra

Sergio Ramazzotti

Mondadori

Dal sito dell’editore

Durante il suo lavoro di fotografo e reporter, Sergio si imbatte in un’occasione inaspettata e spiazzante: accompagnare in Svizzera una persona che sta andando a morire. L’uomo, affetto da una grave malattia neurodegenerativa, ha deciso di ricorrere al suicidio assistito e, dopo una lunga trafila medica e burocratica, ha finalmente ottenuto la “luce verde”, il permesso di morire. Vuole che Sergio racconti la sua storia, quella di chi è “costretto a umiliarsi, viaggiando lontano da casa come una specie di clandestino, per poter esercitare fino alle estreme conseguenze il proprio sacrosanto diritto al libero arbitrio, che nel nostro paese ci viene negato”. Ma non vuole avere un nome né un volto, nessuno deve poterlo riconoscere. Di fatto, per Sergio significherebbe trascorrere con lui le sue ultime quarantotto ore sulla Terra.

Recensione

Difficile leggere questo libro e non interrogarsi, non cercare di capire come la si pensa sul suicidio assistito.

Sergio Ramazzotti ci racconta la sua esperienza: come reporter ha l’opportunità di accompagnare un uomo in Svizzera, a Basilea, per porre fine alla propria vita.

Fin da subito si rivela una delle esperienze più forti e difficili. Lui, Ramazzotti, è stato fotoreporter di guerra, ha visto tante persone morire e tantissime morte, eppure questa è un’esperienza ancora diversa, più complicata perché fa emergere alcuni aspetti e credenze personali. Perché la morte è agognata, voluta, non arriva a causa della guerra. È, sì, conseguenza di una malattia, ma indiretta. L’uomo che accompagna ha deciso di non aspettare che la malattia faccia il suo corso. Non vuole ridursi a un involucro. Vuole poter porre fine al proprio calvario nei tempi e modi stabiliti da se stesso, prima che la malattia lo trasformi completamente, in qualcuno di irriconoscibile. In una persona che non ha più nulla a che fare con chi è adesso, con chi è stato.

Qualcuno ha scritto che la disperazione non è non avere niente, ma non aspettarsi niente.

È chiarissima la differenza tra eutanasia e suicidio assistito; l’autore ce la spiega ed è evidente che nel secondo caso, il suicidio assistito, fino all’ultimo ci sia la volontà chiara ed espressa della persona.  Lo sarebbe in molti casi anche per l’eutanasia, ma nel suicidio assistito è il suicida stesso a darsi la morte. Il medico assiste, ma non interviene. Inserisce la flebo col veleno, ma ad aprire la valvola per farla entrare in circolo è il paziente stesso. Per me, personalmente, resta ancora difficile capire perché una persona debba chiedere l’aiuto di altri per togliersi la vita, anche se l’autore una risposta ce la dà: ci vuole coraggio anche per quello. E poi la “dolce morte” è, appunto, più dolce e priva di sofferenza. E più sicura, aggiungo io.

Non c’è nulla di poetico nel suicidio assistito, ma è finalmente il momento in cui la persona raggiunge il suo scopo, in molti casi. In altri rinuncia all’ultimo.

Ramazzotti non abbellisce nulla, è la cronaca della sua esperienza. Certo, ci racconta il tutto filtrato dalle sue credenze, ma ciò nulla toglie a quello che ha vissuto. Alla difficoltà di vedere una persona che va a morire, consapevole e desiderosa di porvi fine. Inconcepibile per chi è sano e ama la vita, eppure un sentimento comune, diffuso. La tentazione, i tentativi di dissuasione, tutti respinti. L’impossibilità di fargli cambiare idea. L’ineluttabilità, il subire e assistere a una scelta altrui, che non prevede possibilità di tornare indietro.

A volte ho provato a dissuaderlo. Non so se per salvare me stesso di fronte alla legge, o per salvare me stesso pun to. So che bisognava provarci. So anche che bisognava es sere lì, per capire.

Alla fine c’è, comunque, un colpo di scena, anche se non è quello che ci si potrebbe aspettare.

Perché è così difficile morire, anche quando lo si vorrebbe?

Daniela