“Trilogia della Città di K.” di Ágota Kristóf (Einaudi)

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“Trilogia della città di K.” di Ágota Kristóf (1986-1991)

Mentre scrivo questa recensione ho appena terminato la “Trilogia della città di K” della scrittrice ungherese naturalizzata svizzera Ágota Kristóf e sono tutta scombussolata. Ho avuto la possibilità di leggerla in poco più di un fine settimana, in una full immersion ipnotizzante. Chiusa l’ultima pagina, mi sono sentita come un ritratto di Picasso, in cui niente è dove dovrebbe essere.

Il primo libro della “Trilogia della città di K.”, “Il grande quaderno”, è stata pubblicato nel 1986 e ha decretato la fama della scrittrice; i due successivi, “La prova” e “La terza menzogna” sono del 1988 e del 1991. In Italia la Trilogia è arrivata nel 1998.

Cos’è “Trilogia della città di K.”

Avevo in lista questa lettura anche perché Paolo Di Paolo la cita in “Vite che sono la tua” (Laterza 2017), mettendo in risalto come la forte presenza dei bambini nei romanzi di Ágota Kristóf sembri testimoniare quanto la “paura si annidi in loro e li abiti e torni comunque a cercarli e a opprimerli”.

Ho approfittato della #challengedei100classicidelfuturo lanciata dalle quattro bookblogger @ilibridimarlah, @books.baba__ , @letture.cattive e @parole.dal.giappone per tirarlo fuori dalla mia libreria. Poi si è aggiunta anche la condivisa di luglio con il Book Club Italia su Facebook, e insomma non potevo sottrarmi.

Di cosa parla “Trilogia della città di K.”?

Parafrasando William Shakespeare… cosa v’è in una trama? Paolo Di Paolo risponde: “La trama è quasi sempre una menzogna”. Mai come in questo libro, aggiungo io.

Provo a dirla in breve.

C’è una non meglio precisata guerra, in un meglio precisato luogo. Intuiamo che sia l’Europa dell’Est dai nomi delle persone. Due gemelli della Grande Città vengono lasciati nella Piccola Città, in custodia a una Nonna arcigna e rude che tutti chiamano la Strega.

La guerra è probabilmente la stessa che spinse alla fuga una ventenne Ágota Kristóf: l’intervento in Ungheria dell’armata rossa per soffocare la rivolta popolare contro l’invasione sovietica. Non a caso quando viene pubblicata la trilogia, l’autrice ha cinquant’anni, come i suoi protagonisti.

Tutto il primo libro è scritto in prima persona plurale, “noi”. Poi ci sposta alla terza e alla prima persona singolare. Il punto di vista muta di libro in libro, di anno in anno. Chi all’inizio del libro aveva sette anni, alla fine ne ha cinquanta. Tra una regressione temporale e l’altra, iniziamo a dubitare di questa storia, poi a crederle di nuovo e di nuovo a dubitare. Forse la verità arriva, ma questo è uno di quei libri da cui non si riesce a uscire, perché si resta allucinati.

Punti di forza

Lo stile di Ágota Kristóf, si sa, è pulito, secco, asettico. La sua scelta di scrivere in francese, una lingua che non è la sua, ne condiziona lo slancio. La necessità di imparare una lingua straniera, unità al bisogno viscerale di scrivere, fissare, ma soprattutto reinventare, accompagna anche entrambi i gemelli.

Il primo libro è inquietante per i comportamenti dei due protagonisti, perchè si esercitano continuamente a non provare dolore. Crescono durante la guerra, snaturati dalle difficoltà oggettive; le persone intorno a loro vivono una sessualità malata, distorta, come se non ci fossero più regole. Le storture vengono osservate con completa, sorprendente assenza di giudizio.

Si tratta solo di persone disperate. Umili, infelici. I gemelli lo sanno, perché lo sono anche loro.

La narrazione procede come un puzzle. Ogni libro sembra contraddire l’altro. È un incedere verso la verità, in apparenza. Per poi contraddirla ogni volta.

Però, però, però…

“La trilogia della città di K” non è un giallo ma lo si legge come se lo fosse. Si cerca continuamente il colpo di scena, la rivelazione finale. Quella spiegazione che finalmente darà un senso allo straniamento provocato dal primo libro. Si passa da una scena all’altra, il tempo ora trascorre in una direzione, ora in un’altra; si brancola nel buio.

Nessun bambino formula pensieri e frasi adatti alla sua età. A tutti è stata imposta una crescita forzata, innaturale. Tutti conoscono la morte e la separazione.

Voglio rassicurarvi e dirvi che una spiegazione razionale, alla fine, arriva. Ma avanza zoppicando, facendosi strada fra bugie e invenzioni, e noi continuiamo a essere sballottati.

Leggere la narrativa dell’Est mi dà sempre la stessa sensazione: mi perdo in un sottotesto fatto di nostalgia, separazione, incomprensione. La ricerca delle proprie radici e dell’altra metà di sé è oscura e inafferrabile.

Una curiosità: i due gemelli sono nati il 30 ottobre, lo stesso giorno dell’autrice.

Cristina Mosca