“La morte di Ivan Il’ič” di Lev Tolstoj

“La morte di Ivan Il’ič” di Lev Tolstoj (1886)

“La morte di Ivan Il’ič” è un racconto di Lev Tolstoj del 1886. È successivo a “Guerra e pace” (finito nel 1869) e “Anna Karenina” (1877) ma precedente alla “Sonata a Kreuzer” (1889), di cui presenta già alcuni echi.

Cos’è “La morte di Ivan Il’ič”

Ivan Il’ič ha già nel nome tutto un programma. Come fa notare Vladimir Nabokov in “Lezioni di letteratura russa”, in Russo significa Giovanni e Giovanni significa “Dio è buono”; inoltre la traduzione del patronimico Il’ič (figlio di Il’ja) è “figlio di Elias”, che in ebraico significa “Yahveh è Dio”. Perché tutta questa premessa? Perché troviamo i segni della crisi spirituale che l’autore ha vissuto, pensando sempre più spesso alla morte. Nel saggio dedicato a questo racconto, pubblicato nella raccolta “Il male assoluto”, Pietro Citati spiega di Tolstoj che la morte “era l’unica scienza che avrebbe voluto possedere: la invidiava ai defunti e ai moribondi; qualche volta avrebbe voluto passare di là, e tornare fra noi, per informarci.”

Lev Tolstoj aveva sessant’anni quando scrisse di Ivan, un quarantacinquenne che muore per complicanze – apparentemente – sopraggiunte dopo una caduta. Sembra descrivere sé stesso quando racconta che il suo protagonista trovava nel proprio ufficio rifugio dalle beghe famigliari. Qui ho ritrovato alcune considerazioni sui lati negativi del matrimonio che poi torneranno ne “La sonata a Kreuzer”.

In pratica, cosa succede a Ivan? Peggiora sempre di più. Si sente trattato come ipocondriaco, anche dal medico, ma la malattia occupa tutti i suoi pensieri, prende nomi diversi, lo invade. In un’altalena disperata fra “l’attesa di una morte incomprensibile e orrenda” e l’illusione di una guarigione, Ivan passa in rassegna la sua vita, ma l’illuminazione che più ci colpisce è che morte e vita sono imprescindibili e inseparabili: finita la vita, “è finita la morte. Non esiste più”.

Punti di forza

La pulizia del racconto è invidiabile. “La morte di Ivan Il’ič” ha di bello l’intensità di un personaggio che non sa come accogliere la morte imminente. È facile immedesimarsi in lui ed è facile anche immaginare come scrivere il racconto sia stato terapeutico per Tolstoj.

Però, però, però…

Col senno di poi, l’inizio mi sembra disorientante. Come se il racconto iniziasse con uno spirito e finisse con un altro. Troviamo infatti un incipit sarcastico: la notizia della morte del protagonista provoca soltanto la domanda se verrà giocata lo stesso o meno la partita prevista per quella sera. L’incontro con la sua vedova è addirittura oscurato dal tragicomico: prevale la scomodità del pouf e delle sue molle cigolanti.

“E, più s’andava avanti, più tutto si faceva morto. Proprio come se avessi camminato sotto una montagna immaginando di camminarci sopra”.

Nella seconda parte vediamo crescere l’intimità e la disperazione, e diventa inevitabile ripensare a un passaggio famoso e bellissimo di “Guerra e pace”: la caduta di Andrei Bolkonsij.

Il racconto è breve e incisivo, ricco di considerazioni: è difficile restare del tutto indifferenti. Forse occorrerà anche leggerlo in un periodo personale adatto.

Cristina Mosca