“Un dramma borghese” – Guido Morselli (Adelphi)

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“Un dramma borghese” di Diego Morselli (Adelphi 1978)

“Un dramma borghese” è un romanzo di Guido Morselli pubblicato postumo, come la maggior parte dei suoi libri, da Adelphi, nel 1978. L’autore si è suicidato con un colpo di rivoltella nel 1973, deluso dall’ennesimo rifiuto editoriale. Di Guido Morselli abbiamo recensito anche “Dissipatio H.G.

Cos’è “Un dramma borghese”

Un romanzo pruriginoso. Una storia immorale. Un mix fra “Lolita” di Vladimir Nabokov e “Il male oscuro” di Giuseppe Berto. Un’allegoria dolorosa. Un romanzo metaforico.

“Un dramma borghese” è tutte queste cose. È ambientato nel 1943 in un albergo svizzero. Il protagonista, vedovo, si trova in una convivenza forzata con la figlia diciottenne e perdutamente innamorata di lui.

Mimmina non sembra riconoscere il confine fra l’amore filiale e la passione adolescenziale. Il loro rapporto oscilla continuamente fra ambiguità, desiderio e senso di colpa. L’incesto sembra essere dietro l’angolo ogni minuto. In più subentra l’amica Teresa, anche lei diciottenne, ma disinibita e non legata da vincoli filiali…

Punti di forza

Quanto mi piacciono la scrittura di Morselli, il suo immaginario, la sua noia. Il protagonista, che è anche l’io narrante, è condizionato dal suo corpo e ne sente ogni dolore.

All’inizio del romanzo figlia e padre sono malati fisicamente: lei per i postumi di un intervento e lui di gastrite e reumi. Le due camere adiacenti di albergo sono vasi comunicanti attraverso cui a turno i due riversano le loro mancanze. Entrambi fluiscono da una stanza all’altra in un ondeggiare perenne che li porta prima insieme, anche nello stesso letto, in una stanza, poi separati ognuno nella propria, poi di nuovo insieme, stavolta nella stanza dell’altro o nel bagno. Questi movimenti comandano tutta la prima metà del libro.

“Ah no, basta. Basta. Che nella mia vita lei abbia per missione di togliermi la tranquillità, questo l’ho capito. Ma c’è un limite”

Di Morselli amo l’eleganza; l’ironia e l’autoironia con cui immerge il lettore nel qui e ora, dando allo stesso tempo alcuni segnali silenziosi che accompagneranno verso il finale.

Mi piacciono l’avanzare del Fato e l’impotenza dell’uomo di fronte ad esso. Compiamo delle scelte morali credendo che ci portino verso una conseguenza univoca e giusta. Ma è sempre così?

Però, però, però…

Penso che in “Un dramma borghese” Guido Morselli sia un autore perturbante che compie un’indagine senza freni nella morbosità. Sostanzialmente, per buona parte del libro non ci sono nient’altro che approcci, ripensamenti, trattative, e questo può annoiare il lettore che avesse bisogno di azione e colpi di scena.

“Il fatto è questo, dobbiamo accontentarci di dire che i nostri pensieri sono foglie che cadono a caso, solo perché il fremito dell’aria che le muove è troppo esile per non sfuggirci.”

Al posto dell’azione abbiamo piccoli gesti ed elementi edipici/freudiani a bizzeffe. Ma l’aspetto più interessante di come il rapporto fra Mimmina e suo padre influisce sul romanzo è nell’ambientazione, che mi ha fatto pensare al film “Silent Hill”.

Mentre i due interagiscono, infatti, sono circondati costantemente dalla nebbia, perché è così che il protagonista si sente nella gestione delle effusioni destabilizzanti di sua figlia: brancolante, incerto. Un genitore per tentativi ed errori.

Invece, quando sono insieme il protagonista e Teresa troviamo giornate cristalline, ariose, nitide, perché la loro situazione, seppur ambigua, è comunque sempre meno ambigua e destabilizzante del rapporto soffocante che si instaura tra padre e figlia.

Nello sfondo c’è il tema del suicidio e del rendersene colpevoli. L’autore pone il proprio personaggio di fronte a una nemesi da cui nessuno dei due (né il personaggio né l’autore) riesce a scappare. Un elemento molto interessante per chi si interroga sul confine fra la letteratura e la vita.

Cristina Mosca