“Artemisia” è un romanzo di Anna Banti scritto nel 1947, candidato al Premio Strega nel 1948 e ripubblicato da Mondadori nella collana “Grandi narratori italiani” nel 1953 (questa è l’edizione che ho letto io). Dal 2015 è di nuovo reperibile grazie alla casa editrice SE (Studio Editoriale). Ho preso questo romanzo in biblioteca perché scelto come lettura condivisa di novembre dal Club del libro della libreria “Primo Moroni” di Pescara.
Cos’è “Artemisia”
A 53 anni Anna Banti propone la sua versione della biografia di Artemisia Gentileschi con una tecnica molto interessante. Mettendo da parte le finzioni letterarie, spiega di aver perso la prima stesura in un bombardamento tedesco su Firenze nel 1944 e di essere stata sul punto di abbandonare il progetto. Il lavoro l’aveva assorbita a tal punto, tuttavia, che Artemisia si è quasi materializzata al suo fianco e ha insistito affinché la sua storia venisse raccontata.
Vediamo così alternarsi prima e terza persona, in una maniera così fluida e convincente da suscitare ammirazione.
Punti di forza
Di questo libro colpisce, come un fulmine a ciel sereno, l’ampiezza dello stile di Anna Banti. In certi momenti mi ha ricordato la distanza mitica imposta da Paola Masino, in altri l’intensità di Laudomia Bonanni. È uno stile evocativo e profondo, concentrato sul rispetto e sull’empatia verso questa figura femminile che ha saputo imporsi con un mestiere che in un’epoca era considerato soltanto maschile.
“Una donna che dipinge nel milleseicentoquaranta è un atto di coraggio”
In stile suadente, veniamo accompagnati attraverso la vita di Artemisia seguendo un punto focale molto importante: la sua emancipazione come professionista, il suo riconoscimento da parte di committenti illuminati. E uno sguardo solidale verso i suoi sentimenti.
“Nessuna donna è felice se non è sciocca”
Nella prefazione all’edizione del 1953, Anna Banti sostiene che le biografie non riportano la data della morte di Artemisia Gentileschi. Secondo Wikipedia, ulteriori ricerche degli ultimi vent’anni hanno fatto emergere che probabilmente morì nella peste che colpì Napoli nel 1656.
Una chicca: Anna Banti e Artemisia hanno lo stesso segno zodiacale, il Cancro. Stupiscono meno la comunanza di sensibilità e il bisogno di amore di queste due donne.
Però, però, però…
Secondo me bisogna prendere “Artemisia” non come biografico ma come omaggio appassionato a un’artista il cui talento è stato offuscato dai pregiudizi. Anzi, considererei questo romanzo tra le ultimi lapidi rimaste dedicate ad Artemisia Gentileschi, visto che la chiesa napoletana di San Giovanni Battista dei Fiorentini, in cui era sepolta, fu abbattuta tra il 1952 e il 1953.
Se da una parte il potere evocativo dello stile si fa suadente, infatti, dall’altra si pone a volte come ostacolo per comprendere bene la storia, seguirne la linearità, appropriarsi dei personaggi. Come fatto presente da Grazia Livi, la narrativa di Anna Banti sembra quasi un quadro dalle pennellate vivide e a volte impulsive. Il racconto procede per flash (da qui il mio paragone con Paola Masino) e non sempre sono riuscita a visualizzare dove fossi, con chi e perché. Ma ammetto di aver accettato, in questi passaggi un po’ più oscuri, la bellezza dello stile come moneta di scambio.
“E troppo spesso le lagrime son liquido fuoco che accende l’ira, perché non è tempo di soffrire questo, ma di vivere”.
Mi sento di dedicare una nota di merito all’episodio dello stupro. Ad oggi, lo studio intorno ad Artemisia Gentileschi si focalizza molto su questo incidente che ha condizionato l’intera sua vita. Esistono ancora sonetti e dileggi sulla figura di questa ragazza che è stata violentata a diciott’anni dall’artista a cui era stata affidata affinché crescesse professionalmente. Quando si è sottoposta al processo una volta scoperto che non poteva esserci nessun matrimonio riparatore, Artemisia è stata esposta al pubblico ludibrio e perfino torturata (con il rischio di perdere le dita, tra l’altro). Il suo stupratore è stato riconosciuto colpevole, ma di fatto non è mai stato punito. Molte versioni dei quadri dipinti da Artemisia dopo il 1611, con le figure bibliche di Giuditta e di Susanna, mostrano la rabbia e la vergogna della pittrice.
“(…) è il tempo a far l’amore e il disamore, il tempo che ci fa e disfà”
Volevo dirvi, però, che tutto questo lo so perché ho cercato su Internet. Se intraprendete la lettura di “Artemisia” di Anna Banti perché volete conoscere meglio la sua infanzia e la sua giovinezza non troverete nessun approfondimento. L’abuso che l’ha resa famosa è stato toccato con molta leggerezza, quasi come un episodio di scarsa importanza.
All’inizio mi è sembrato un difetto. Poi, in un passaggio, viene detto che anche in Inghilterra Artemisia veniva presentata come “Fu violata da Agostino Tassi e amata da molti”. Se questo è vero, è aberrante.
Allora ho capito che Anna Banti ha voluto offrire un atto di giustizia a questa donna: liberarla dal marchio e lasciare che venisse ricordata per quello che ha fatto, non per quello che ha subito.
La trovo un’operazione bellissima e commovente.
“Non c’è più dubbi, un pittore ha avuto nome: Artemisia Gentileschi”
Anna Banti, pseudonimo di Lucia Lopresti, è una scrittrice di origini siciliane nata a Firenze nel 1895. Il suo nome d’arte viene da una parente della famiglia materna, originaria di Prato, che l’aveva sempre affascinata. Nella raccolta di saggi “Le lettere del mio nome” (ripubblicato da Iacobelli nel 2015), Grazia Livi la dipinge, da anziana, come una donna rigorosa, assisa su un trono, dedita alla conservazione della memoria di suo marito Roberto Longhi, critico e storico d’arte scomparso nel 1970. Alla ricerca della propria identità (“Sono davvero una donna di lettere? O una storica d’arte fallita?”) anche a novant’anni. Nel 2025 saranno passati 40 anni dalla sua scomparsa.
Cristina Mosca