“Le avventure di Peter Pan” – James Matthew Barrie (Mursia)

le-avventure-di-peter-pan-copertina
“Le avventure di Peter Pan” di James Matthew Barrie (1911)

Ognuno di noi probabilmente ha una edizione di “Peter Pan” di James Matthew Barrie a casa. Io ho letto a mio figlio, nel nostro rito serale, quella di Mursia del 1983, nella traduzione del 1964 di Sandra Vagaggini e Lelia Fraccaro. Le edizioni disponibili sul mercato oggi sono tantissime.

Il personaggio di Peter Pan è nato all’interno di un romanzo del 1902 ed è diventato protagonista di un’opera teatrale del 1904. Dal successo di entrambi sono scaturite le due parti che compongono “Le avventure di Peter Pan” del 1911: “Peter Pan nei giardini di Kensington” e “Peter Pan e Wendy”.

Cos’è “Peter Pan”

“Peter Pan nei giardini di Kensington” è diviso in due sezioni: la prima è dedicata alla nascita del protagonista, la seconda alla sua amicizia con Mamie, in cui troviamo l’equivoco tra baci, ghiande e ditali che poi tornerà in Wendy.

La mia edizione fa così tenerezza ed è così antica che, oltre a rievocare la lingua desueta del primo Novecento traduce Captain Hook con Capitano Arpione invece che con Capitan Uncino – e io ci ho pure messo un po’ ad accorgermene.

La trama nel totale è questa: in origine, Peter Pan è un neonato che è fuggito dalla carrozzina a sette giorni di vita e viene ospitato prima dagli uccelli dei giardini di Kensington e poi nell’Isola che non c’è, diventando una figura mitologica per ogni bambino. In “Peter e Wendy” le sue visite a Londra sono frequenti e in una di queste porta via con sé i tre fratelli Darlings Wendy, John e Michael. Qui non è più raffigurato come un neonato, ma come un bambino.

L’intreccio è avvincente, in una struttura quasi a cornice: all’interno del pathos creato dalla lontananza da casa dei tre fratelli, si crea l’ulteriore pathos della trappola dei pirati ai danni dei Bambini Sperduti.

Come nasce “Peter Pan”

Pare che alla base delle storie sul bambino che non voleva crescere ci fossero i cinque ragazzi Llewelyn (tra l’altro imparentati con la scrittrice Daphne du Maurier), che entrarono nella vita di James Matthew Barrie alla fine nel 1898 e vi rimasero definitivamente quando i loro genitori morirono di malattia.

Pare che Barrie si divertisse a raccontare loro che il fratellino Peter, appena nato, fosse in grado di volare e che era per questo le culle avevano le grate.

I Llewelyn erano George, Nicholas e – udite udite – Peter, John e Michael.

Il nome di Wendy potrebbe provenire dal gallese Gwendolen ma anche dal modo in cui veniva soprannominato Barrie, “fwendy” (da friend con la erre moscia… praticamente “amichetto”. E qui potrei aprire un paragrafo sul suo matrimonio non consumato e sulle voci di pedofilia che circondano spesso alcuni autori per l’infanzia, come anche Lewis Carroll).

Quando nel 1912 James Matthew Barrie fece erigere nei giardini di Kensington una statua di Peter Pan per fare una sorpresa ai bambini, allo scultore erano state fornite delle foto del piccolo Michael in posa. Ma non furono prese in considerazione, con grande disappunto di Barrie: non mostrava “the devil in him”.

Se volete più informazioni su questi cinque ragazzi che Barrie adottò (e purtroppo sulle loro tristi sorti), su Wikipedia potete sbizzarrirvi.

Punti di forza

La meraviglia, l’assurdità, il diritto di sognare. La suggestione de “Le avventure di Peter Pan” è tutta in questo trittico. Ma in ogni storia che si rispetti ci sono degli antagonisti e questi qui fanno proprio paura: specialmente i pirati, che a un certo punto hanno la meglio. La situazione sembra precipitare, ma sul più bello si riparte dalla meraviglia.

“Solo chi è spensierato, innocente e senza cuore può volare”

Possiamo cogliere un messaggio nostalgico e allo stesso tempo positivo nella metafora del volo: il fatto che solo i bambini possano farlo li inserisce in una élite privilegiata, mentre gli adulti diventano degli infelici, inghiottiti nel tran tran della vita lavorativa, con pochi capelli e la barba. È insieme un monito per noi e un passo in avanti per la società del tempo. Solo pochi decenni prima, infatti, i bambini erano dipinti da Charles Dickens come la categoria più indifesa, maltrattata e sfruttata.

Però, però, però…

Diciamo la verità, quanto siamo affezionati alla storia di Peter Pan, soprattutto grazie alla versione edulcorata della Disney del 1953? Quanto ci ha entusiasmato l’idea di poter volare verso un paese pieno di avventure e di fate?

Questo affetto ci ha fatto soprassedere su un sacco di cose.

Innanzitutto, sull’arroganza di Peter. Il protagonista più amato dai bambini è in realtà un essere vanesio e snervante, tanto eroico quanto umorale, che dimentica sia gli intimi amici una volta lontani sia gli acerrimi nemici dopo essere riuscito a ucciderli (ucciderli, signori miei, ucciderli: con la leggerezza dei videogiochi).

“Sono belle le stelle, ma non possono prendere parte attiva in niente, devono solo stare a guardare giù in eterno. È un castigo che esse hanno avuto per qualche cosa che commisero tanto tempo fa, ma tanto, che non c’è stella che sappia cosa sia stato”

E che dire della sfumatura che assume il rapporto con Wendy? Oggi la chiameremmo misogina. Peter Pan è un bambino incoerente e bizzoso e come tale mantiene ferree le sue opinioni negative sulle madri, perché ha equivocato il comportamento della sua. Allo stesso tempo, però, sa di averne bisogno e alla fine cede a un compromesso con la signora Darlings e torna a prendere Wendy ogni anno. Per raccontargli le storie, penserete voi; per cullarlo, coccolarlo, dargli supporto morale, alimentare la sua intelligenza emotiva?

No. Per le pulizie di primavera.

E meno male che le suffragette inglesi lottavano per la parità proprio in quegli anni…

Riprendere “Peter Pan” in mano significa concedersi la possibilità di guardare le cose dal punto di vista dei bambini in maniera trasparente e lucida, a partire dall’incanto che permea tutte le cose per finire all’egoismo e l’”ingratitudine” che li caratterizza.

Cristina Mosca